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morì di gotta (1). Morì mentre si celebravano i ludi di Apollo. La sua statua era nel sepolcro degli Scipioni, fuori di porta Capena, con quella di Publio e Lucio (2). Quelle volevano dire Africa e Asia domate; questa significava invece vinto il Latium ferox. Alla vigilia dell'assoggettamento dell'Oriente, Roma mostrava che avrebbe vinto con le armi e si sarebbe lasciata vincere dalle arti.

Ennio, oltre Tragedie, Comedie e Sature o Miscellanee, con le quali ultime introdusse nuovi generi poetici nel Lazio, compose la sua grande opera epica in versi esametri o lunghi. La quale un grammatico trovava inscritta o Annales o Romais (3). Quando cominciasse non è dato sapere; non è però assurdo supporre che quegli che poi scrisse le Origines, lo consigliasse e incitasse a quel lavoro. Non pareva ad esso che agli eroi Romani fosse data parva laus al confronto dei Greci? (*) Idem benefactum quo in loco ponas, nimium interest. Non è quindi improbabile che appena venuto in Roma si dedicasse al suo poema; tanto più che la morte, avvenuta in quel torno, di Naevio, può avere attratto l'attenzione, come degli altri così di Ennio, sul Bellum Poenicum. Certo il Rudino ebbe il pensiero al Campano e già nell'inizio del suo poema. Nel fatto si può tenere che egli componesse e mandasse fuori primamente i primi sei libri. Ebbene questi sei libri sono evidentemente nu'Antenaeviana, comprendendo la storia di Roma appunto sino al Bellum Poenicum, che è il soggetto del poema di Naevio. È vero che l'uno si doveva trovare a trattare una parte dell'argomento già irattata dall'altro, le origini mitiche di Roma, ma era necessità, non elezione. Avesse Ennio voluto venir proprio a paragone di Naevio, avrebbe appunto narrata poeticamente quella guerra, che era, si può dire, il tutto dell'opera Naeviana, e non si sarebbe invece fermato avanti essa. Il consiglio di Ennio era rispettoso del vecchio e pugnace vate, poichè anche svolgendo ciò che forse era appena abbozzato nel Bellum Poenicum, l'origine di Roma, egli, come vedremo, ne accettava la sóstanza dei fatti: il che non faceva, per esempio, Catone. Nè è assurdo pensare che Ennio componendo i primi sei libri avesse pensiero di fermarsi lì. De' due titoli, che anche dopo conservò il poema, non è detto quale gli fosse dato prima dal suo autore. Non è possibile, per non dire probabile, che Ennio ponesse il titolo Annales solo quando cominciò davvero a scrivere annali, ossia libri che singulorum fere annorum actus contineant? (5) Solo dunque negli ultimi libri, de' quali, per esempio, il XV conteneva la guerra d'Aetolia

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(2) Cic. Arch. 22. Tit. Liv. XXXVIII lvi.

(8) Diom. in Gr. Lat. I 484. Romais è emendato da Romanis senza senso dei codd. (4) Gell. III vii.

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ossia i fatti del solo anno 565 di R. Io penso per ciò che Romais fosse il primo titolo del poema Enniano, quando si limitava ai soli primi sei libri. E come è adattato! Poichè, considerando che termina con la guerra di Pyrro, noi possiamo imaginare che nella mente di Ennio si formasse il drama di Roma in modo organico e pieno, con il suo prologo, i suoi episodi e la sua conclusione. Enea scampato all'Aeacide, fondava il suo regno in Italia e l'Aeacide veniva a ritorglielo e perseguitava le reliquie di Ilio sino nella terra dell'esilio: invano. Di ciò è indizio un frammento attribuito indubbiamente al libro VI, e che fa parte d'un concilio di dei (1). Tum cum corde suo divum pater atque hominum rex Effatur. Un concilio degli dei? perchè? quando? Parrà invece al suo posto se lo connettiamo al prologo del poema, alla fuga da Ilio, Cum veter occubuit Priamus sub Marte Pelasgo.

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Questo primo gruppo, adunque, questa Romais, trattava l'origine di Roma dalla distruzione di Ilio, e la sua vittoria di poi contro i vincitori d'allora. Ennio restava, in certo modo, nella regione del mito, illuminata dalla poesia: dove una serenità si stende senza nuvole e vi scorre una candida luce', come nell'Olympo, Invocava a principio le Muse. Poi raccontava un sogno. Omero nel sogno gli appare. Omero sparge salse lagrime. La sua essenza vitale (anima) soffre, poichè è in balìa d'una forza, che, per purificarla, la tramuta da corpo a corpo. Ora essa è in lui, Ennio, figlio di re. Canti, secondo l'antico costume, canti essa anima nel corpo italico, ciò che avvenne dopo quelle mirabili avventure che ella già cantò quando era nel corpo greco. Canti Ennio i paralipomeni d'Omero! dopo la distruzione di Troia, la nascita di Roma; dopo la vittoria dell'Aeacide sui Troiani, la vittoria dei Troiani sull'Aeacide! E il simulacro di Omero greco (già in Ennio Virgilio trovava la differenza tra il simulacro e l'anima: Omero è in Ennio: eppure a lui apparisce come un altro) svanisce; e l'Omero italico si volge agli avopeç divenuti cives e comincia col tono sublime di chi ha dentro di sè l'inspirazione del grande poeta, e avanti sè le mirabili storie della grande città,

est operaé, cognoscite, cives.

Anchise, figlio di re, ha dalla dea l'annunzio e il consiglio. Anchise vuole ubbidire. Enea rilutta. Venere stessa lo prega e gli parla della terra del tramonto, della terra di Saturno che l'aspetta. Lasciano piangendo la città destinata a perire in Asia per risorgere in Italia. In Italia Enea sposa (si può indurre da Naevio, che Ennio verisimilmente seguì) la figlia del re Albano, e svanisce poi divenendo

(1) E il xxvi del VI.

dio. E Ilia che di lui rimane con una sorella maggiore, in sogno (probabilmente) concepisce da Marte; e partorisce i due gemelli; e gettata ella nel fiume diviene di esso fiume la moglie immortale; e i gemelli esposti sono nutriti del latte ferino della lupa, e crescono e sono riconosciuti dal re d'Alba. Nel cielo è consiglio; sta per nascere Roma. Lassù il destino dei due gemelli si decide: uno solo di essi verrà nel cielo (1). E in terra, da due colli, i due gemelli attendono a osservare il volere degli dei, guardano nel cielo diviso e tagliato dal lituo augurale. Passano i dodici avvoltoi: Romolo è re e Roma si deve chiamare la città. In quel momento sorge il sole. Il giorno che comincia è poi contristato dalla rissa fatale de' due gemelli. E il libro primo continuava sino alla morte e deificazione del nepote di Enea. Il secondo libro comprendeva i quattro primi re (2); il terzo i re Etruschi e la loro cacciata. Il quarto giungeva forse sino a Camillo, il quinto certo sino a Pyrro. Il sesto, che è col primo quello donde Cicerone trascrisse più, e che comincia con una introduzione che doveva essere magniloquente, aveva dunque la guerra Epirotica che era, probabilmente, la conclusione del poema nel suo primo concepimento; e rispondeva simmetricamente al primo avendo anch'esso un concilio di dei. Che cosa in questo concilio si trattasse non è dato indurre dai frammenti: si può però imaginare che echeggiasse in qualche modo a quello del primo libro, e che vi fosse menzione della guerra Iliaca e dell'esilio glorioso nella terra Italica dei partiti da Troia.

Quando riprese Ennio il suo poema, riducendolo ad Annales? Notando che in tre libri, VII, VIII e IX, sono comprese la prima e seconda guerra punica, con altre ancora nel VII, mentre la guerra Macedonica e la liberazione della Grecia occupano due e forse tre libri, si può congetturare che lo inspirassero a continuare il poema questa guerra e questa liberazione, che dovevano avere assai commosso due dei tre cuori del poeta; tanto più che con questi due fatti egli poteva riprendere il concetto mitico della prima Romais (3). Si sarebbe adunque il poeta sbrigato dalle due terribili guerre puniche con una certa rapidità, la quale è osservabile, in quanto alla prima, per altra ragione ancora. Riprendendo il suo poema, Ennio si trovava avanti l'argomento del poema di Naevio. Egli aveva composto il primo gruppo I-VI quasi per adempiere il desiderio che dal poema Naeviano restava al Romano: ora, dovendo trattare ciò che Naevio aveva trattato, si scusa con una ragione nuova, che non

(1) La promessa che fa Giove, secondo Servio (vedi in nota a I fr. xl), ai Romani, dell'eccidio di Carthagine ha il suo posto naturale nel libr. VIII: vedi fr. xxiii e seg.

() Vedi nell'Aen. vi 777 e segg., 807 e segg. in cui Romolo è pur separato dai re. (8) Vedi XI fr. iii.

avrebbe allora detta. Ora può dirla, ora che il suo poema e il verso lungo ha conquistato i cuori e le orecchie Romane. Sì, questa guerra è stata cantata da altri, ma coi saturnii dei Fauni e dei Vati, col rozzo metro ámetro del popolo. Per dire', ci vuole primamente l'inspirazione intima (sono le Muse? è una vita d'antico poeta che ditta dentro?), poi lo studio. Questi (Ennio indica sè con un gesto che ha già ragione di essere altero), questi ha superato li scogli, nei quali l'altro, quello, è rimasto [è una mia congettura, per cui vedi nota a Naev. fr. i]; questi ha per il primo attinto alle sacre fontane della poesia. Dopo tale proemio, egli tuttavia, pur trattando la prima guerra punica, se ne passa con più brevità del solito: relinquit, per dirla con Cicerone (1); se pure... se pure Cicerone non parla in relazione con la larghezza usata da Ennio negli ultimi libri; nel qual caso egli si sarebbe ingannato sulla causa della maggiore ristrettezza nel VII e forse nell' VIII e nel IX. Certo, per ammettere con me che Ennio riprendesse il poema nel 558 o giù di lì, alla conclusione della guerra Macedonica e alle sue conseguenze, bisogna tenere errata l'indicazione in Gellio di XII annale, che egli avrebbe scritto nell'età di 67 anni, nel 582. Ed errata è di certo. Come avrebbe Ennio aspettato a dopo il 582, per scrivere la guerra di Aetolia avvenuta nel 565? come in tre anni di vita avrebbe compiuti i sei ultimi libri? E notiamo che gli ultimi tre libri cominciavano, secondo ogni verosimiglianza, con un accenno alla vecchiaia del poeta (2), col quale accenno benissimo sta ciò che Gellio riporta da Varrone (3).

Ridotti gli annales a dodici, il poeta aspettò ancora. Il successo dell'opera indusse probabilmente Fulvio Nobiliore a menar seco il poeta nell'Aetolia, animandolo a continuare il poema. Ciò dunque nel 565. Egli aggiunse ancora tre annali: due per la guerra di Antiocho, il terzo (XV) per la gloria di Fulvio. Catone fu malcontento che il suo poeta sottraesse al Comune per dare alle persone. In vero, un libro alla guerricciola Aetolica e all'assedio di Ambracia, e due, due soli alla guerra di Annibale! Se poi egli aggiungeva (4) una lode magnifica di Fulvio, e concludeva

Moribus antiquis res stat Romana virisque,

oh! sì, forse Catone non era dalla parte del torto nel rimbrottare Fulvio e nel pluralizzare Ennio, facendo poetas il poeta. 1 mores antichi erano in fatto: tutto per la repubblica ': Commune magnum. Vecchio, tormentato dalla gotta, nel 582 (si può credere) aggiunse

(1) Vedi nota a Enn. libro settimo.

(2) Vedi XVI fr. ii e iii.

(8) Vedi nota a fr. i del libro citato.

(4) Vedi fr. v (nella cui nota correggi la data dell'assedio, che è del 565) e vi.

ancora tre libri. Era vecchio, ma della vecchiaia, tutta fremiti e nitriti, del cavallo già vincitore nelle gare. Vecchio il poeta consacra alla fortezza dei militi di Roma i suoi ultimi versi. È nel libro XVI il tribuno, per il quale Ennio emula Omero che descrive Aias (1). O vecchiaia di battagliero! Questi ultimi annali erano pieni di suon di ferro e di scalpitìo di cavalli e di lotte di venti in tempesta. E ne usciva l'ammonimento che già anni prima, nel cominciare l'arditissima impresa, dava ai cittadini di Roma il buon Rudino: Audire est operae pretium (2). Egli attingeva alle fonti sacre e voleva l'arte e lo studio; ma si proponeva anche un nobile fine: il fine che non doveva dispiacere al suo primo protettore e amico, che lamentava l'oscurità di Caedicio tribuno al confronto del re Leonida:

Noenu decet mussare bonos, qui facta labore
Nixi militiae peperere (3).

Non si direbbe che Ennio faceva ammenda delle lodi troppo particolari al Nobiliore? Egli professava di dirigersi a quelli che volevano il bene di Roma e del Lazio: Remque Romanam Latiumque, ripete da Ennio Orazio nella festa secolare di Roma (*).

VI.

Per valutare equamente i meriti del grande Ennio, prendiamo una che può parere piccola cosa a quelli che sanno fare star ritto l'ovo... dopo che hanno veduto come si fa: prendiamo l'esametro Enniano. Io credo bensì che Livio e Naevio avrebbero potuto usare il verso lungo, se fosse convenuto ai motivi e fini della loro arte; che essi l'avessero potuto presentare alle orecchie Romane perfetto, oh! non credo davvero. Ricordiamo quante parole dalla lingua latina, non nata, come si può dire della greca, Minerva armata del suo verso eroico, quante parole non quadrino alla misura dattilica : imperator, e simili, tutti i vocaboli come terminus, advena, debitor, victoria e simili, che solo in due casi entrano nell'esametro, altri come silentium, somnium, altri che hanno solo il plurale come induciae, nuptiae, molte forme verbali come prodeunt etc. Troppo poco ci è rimasto di Ennio; pur da quel poco vediamo, che i modi ingegnosi di Lucrezio, di Vergilio, di Ovidio, per introdurre o quelle parole

(1) Vedi XVI fr. xvii,

(2) Vedi XXII fr. i.

(3) XVII fr. ii.

(4) XVII fr. i 2, Hor. CS. 66.

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