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PIETRO ARETINO

UN pitocchetto di tredici anni è ito nel 1511 a Perugia con alquanti danari rubati alla meretrice di cui è figlio, e si è posto là a lavorare nella bottega di un legator di libri, che per sei anni gli dà pane e busse : sloggia insalutato ospite, e si pone staffiere in Roma di Agostino Chigi, dal qual cacciato per sospetti di furto, entra converso ne' Cappuccini di Ravenna, poi si sfrata e torna a Roma: si è buscato un bell'abito, e a Leon x sullo scalone del Vaticano porge versi di sua fattura, e il Papa gli getta un pugno di ducati. Giuliano de' Medici gli fa dono d'un cavallo, e lo

manda a Mantova raccomandato al Marchese- «<lo mi ritrovo in Mantova (scrive Pietro Aretino ad un suo compare) appresso il signor Marchese, e in tanta sua grazia che il dormire e il mangiare lascia per ragionar meco, e son io regalato di 300 scudi, e gran cose mi dona che le vedrete in Arezzo- —».

Pietro si riconduce a Roma in mal punto; a Leone è succeduto uom di austera morale, unicamente inteso a studi teologici; però non tarda a morire, e succedegli Giuliano de'Medici con nome di Clemente vı: or si davvero che spuntano bei di per l'Aretino! Passeggia, a dir di Berni, in vesti ducali, s'intitola poeta divino, il Papa gli assegna una pensione.

Giulio Romano ha disegnati sedici gruppi osceni; Marcantonio Raimondi li incide; corrono la città: il datario Ghiberti vuol puniti gli autori dello scandolo: Giulio fugge; Marcantonio è carcerato l'Aretino, col patrocinio del cardinale Ippolito de' Medici, ottiene che sieno ambo perdonati.« Da poi che ottenni (scrive al Zatti) da papa Clemente la libertà di Marcantonio bolognese, il quale era in prigione per avere intagliate in rame le sedici figure ecc.., mi venne volontà di veder tali figure, cagione che le querele ghibertine sclamavano che il buon uomo si crocefiggesse; e vistele, fui tocco dallo spirito che mosse Giulio a disegnarle : e perchè i poeti e gli scultori antichi e moderni sogliono scrivere e scolpire alcuna volta di tai cose per trastullo dello ingegno, vi sciorinai sopra i sonetti che vi si leggono a' piedi, la cui licenziosa memoria v'intitolo con la pace degli ipocriti... ». Quale e quanto

sia lo sdegno di Ghiberti e del Papa per tale impudenza è facile pensarlo: Aretino fugge; il caso fa romore, e leva alto la fama di Piero; egli è amato dagli artisti, i re di quel secolo: l'esule da Roma passa appena alcuni giorni ad Arezzo, che la chiamata d'un principe lo toglie agli ozii della città nativa. Cotesto principe è un famoso capitano, Giovanni de' Medici, il condottiero delle bande nere, che ha soprannome di Gran Diavolo.

(1) Allorchè Piero, montato sovra un bel cavallo, giunse di nottetempo presso il campo del Gran Diavolo, fu spettatore di una strana scena: il Duca aveva accordata a' soldati una notte franca: chi correva, chi spingeva, chi gridava: fiaccole e roghi ardevano per tutto: femminette di allegra vita erano accorse a stormi dalla vicina Fano: qua cavalieri con fiaschi di vino, e prosciutti pendenti agli arcioni, tornavano dallo avere scorrazzato a ruba il dintorno; là stracorridori pedestri si cacciavano innanzi pecore, capre, vitelli; da un canto donne in lagrime, dall'altro villanzoni chiedenti restituzione delle donne e delle robe, cacciati via a colpi di manico d'alabarda: gran fuochi brillavano tra le querce, e alla luce rossastra degli accesi carboni bevitori, ballerini, briachi parevano ombre brancolanti fra le tenebre; scena degna d' ispirare un artista. Quel tutto assieme di stravizzo, d'urli, di bestemmie,

(1) Vedi l'Arétin par Philarète Chasles. Mi sono appropriati qui e in appresso alcuni brani di quello scritto brillante, però pieno d'inesattezze e superficiale.

L' A.

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di motti osceni, d'atti più osceni; quella soldatesca licenza che si disfogava con balli, con risse; armonia di liuti e fucilate; voci rauche, il soffiar del vento, lo spezzarsi de' bicchieri; quel tutto assieme conquide Aretino e lo innamora. Eccolo giunto al cospetto di Giovanni, che nella sua tenda si dà buon tempo anch'egli tra coppe rovesciate, ebbri compagni, e femmine seminude. -Giovanni e Piero s'intendono tosto: il Duca è di sua natura un po' crudo; si diletta talora di far passare al filo della spada qualche centinaio di abitanti di città presa d'assalto; buon compagnone del resto, e fatto apposta per apprezzare il merito dell'Aretino e diffatti lo vuol sempre a tavola seco, alle parate, alle feste, in ogni luogo, tranne ai combattimenti. Lo presenta in Milano a Francesco I che gli fa festa; avvegnachè Piero ha la prerogativa di divertire i Grandi: la grossolana briosa licenza del suo tempo traboccagli spontanea dalle labbra.— « Il Re ieri (gli scrive il Medici) si dolse meco a buon proposito che non ti aveva menato meco al solito; diedine la colpa al piacerti più lo stare in corte che in campo mi replicò la Maestà Sua che ti scrivessi, facendoti qui venire. So che non manco verrai per tuo benefizio, che per veder me che non so vivere senza l'Aretino-». Sarebb'egli diventato un gran che, se Giovanni non moriva;

Sotto Milan dieci volte non che una
Mi disse Pietro, se di questa guerra
Mi campa Dio e la buona fortuna,
Ti voglio insignorir della tua Terra....

D

Allorchè si cominciò tra gli eserciti nemici a menare le mani, piacque al Poeta ritirarsi a Roma. Là certa cuoca di quel Ghiberti suo antico persecutore gli diè nel genio, e scoccò contro Achille della Volta, che in tai nobili amori gli era rivale, un pungente sonetto, a cui l'altro rispose con cinque coltellate, una delle quali lo storpiò nella mano. Chiede giustizia: Ghiberti lo scaccia; infuria allora contro il Papa, contro il Datario, contro l'Elena cuciniera, e vomita un mar d'improperi rimati, che Berni rimandagli di rimbalzo in una celebre litania d'invettive, la qual si diffonde per tutto, e presta a Piero il primo fondamento solido alla sua futura riputazione di cinismo.

Anatemizzato da Berni, storpiato da Volta, torna l'Aretino al campo del suo protettore, il qual poco stante ha spezzata una gamba sotto le mura di Governo, e gli muor fra le braccia sul principiare dell'anno 1526.

Pietro ricovra allora a Venezia, unica città che può prestargli asilo. La lega di Cambrai ha fatto perdere alla regina dell'Adriatico l'antica preponderanza sulla Penisola; la vigoria musulmana, succeduta in Oriente alla greca fiacchezza, incalza e preme l'alato leone; la scoperta di Vasco di Gama minaccia di rovina il suo commercio delle Indie: vuole la Signoria collo splendore delle arti, colla magnificenza del principato far tacere il presentimento del tramonto vicino. L'aristocrazia si è spoglia di ogni apparente severità; i cittadini adorano un reggimento, che se non liberi, li fa ricchi e felici: gli stranieri accorrono in folla a

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