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PER CONFORTINO*

Nel quad. I-II (vol. XVI) del Giornale dantesco è apparso uno studio interessante del prof. Nino Quarta intitolato: Intorno ai supposti abbozzi del Petrarca scoperti nel codice casanatense. E poiché egli prende, per sua bontà, le mosse alla sua discussione da un mio scritto sullo stesso argomento, pubblicato nel vol. VII degli Studi di Letteratura italiana, chiedo all'illustre Direttore di questa rivista un breve spazio, non per riprendere in esame la questione, perché, occupato in altri studî, non avrei ora, né la voglia, né il tempo di farlo; ma solo per chiarire il mio pensiero su alcuni punti di essa, sui quali si esercita la critica arguta del Quarta.

Comincio con l'osservare che io non pretendevo di chiudere la questione; poiché scrivevo (p. 25): « In questo mio studio spero di recare nuove osservazioni sull'argomento, che, se non varranno ad esaurirlo, certamente gioveranno a chiarirlo grandemente ». E questo riconosce lo stesso professor Quarta; il quale mi fa l'onore di prendere appunto, come ho detto, quello studio per base della sua discussione di che lo ringrazio veramente. Però quest'onore mi costa un pochino; perché procura a me solo alcune frecciate, che andavano divise, almeno, coi miei precedessori. Infatti, non io solo credetti « nuovi abbozzi » le rime scoperte; ma tali le credettero, oltre agli editori, il Cesareo, il Pellegrini e il Volpi; né

* Questo scritterello fu inviato alla Direzione nel luglio del 1908: perciò non potetti allora, né posso piú ora, tener conto del volume del dott. E. LEVI, Francesco di Vannozzo e la linea nelle Corti lombarde durante la seconda metà del secolo XVI, Firenze, Galletti e Cocci, 1908, nel quale è ripresa la quistione.

Giornale dantesco, anno XVII, quad. I-II.

io solo credetti raccolte nella membrana tutte le rime per Confortino; ma anche gli editori e il Cesareo (il quale anzi credeva non vi fossero accolte tutte); quindi, non io solo riferii l'haec a tutti i componimenti in essa raccolti. Finalmente non fui solo a rimuovere dai sonetti le forme dialettali, sostituendole con le forme solite del Petrarca; ma prima di me lo avean fatto gli editori, il Cesareo e il Pellegrini !

Ma lasciamo andar queste inezie! Lo studio del Quarta è interessante per le nuove osservazioni che reca; le quali, se anche non persuadono interamente, meritano la piú seria considerazione degli studiosi, perché presentano la quistione sotto un nuovo aspetto. La prima osservazione grave si presenta sull' interpretazione della nota apposta alla membrana A. Gli editori, il Cesareo ed io la riferimmo a tutta la pagina, cioè ai tre sonetti e alle tre ballate, ai quali componimenti tutti riferimmo l'haec. Solo il Pellegrini mise il dubbio che nella pergamena A, oltre il gruppo delle rime per Confortino, ve ne fossero altre estranee ad esso: forse i primi due sonetti. Il Quarta, invece, riferisce la nota alle sole tre ballate; perché non legge haec in ordine, ecc., ma dopo l'haec vede sicuramente un 3, e legge, quindi: haec 3 ordine, ecc. Ora, io non ho sufficiente competenza per giudicar chi abbia ragione, se il Giorgi e il Sicardi e il Pellegrini, che lessero d'accordo i; o il Quarta che legge 3; ma è bene che i competenti, che possono studiare l'originale casanatense, ritornino su questo punto, di capitale importanza per la questione. Io confesso d'avere dei dubbî sull' interpretazione del Quarta; perché la cifra 3 verrebbe a

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sostituire l'in, che accompagna costantemente l'ablativo ordine nelle note vaticane. Ma è naturale che questi dubbî cadrebbero, se si giungesse a leggervi sicuramente 3, come vuole il Quarta. Ancóra. Il Quarta vi aggiunge un altro argomento, anche degno di considerazione: cioè che solo i sonetti abbondano di forme dialettali venete o di scorrezioni, dalle quali vanno esenti le tre ballate. Poiché il quantonche, che tutti leggemmo nel v. 10 della prima di esse, secondo il Quarta, non sarebbe tale, ma quanto che, nel senso di tardi quanto essa voglia, non già nell'avversativo quantunque. Veramente, ora non ricordo di aver letto nel Petrarca quanto che, e in quel significato; dall'altra parte i dizionari e le opere che qui ora posso consultare, mi dicono che, se quanto che ha talora il significato suddetto, nello stesso significato è più comune lo stesso quantunque.1 Inoltre, nelle stampe (la prima delle quali, almeno, dovette aver presente l'abbozzo, come mostra il Ch'avvegna del v. 11), sebbene con una certa confusione, forse per le correzioni dell'autografo, il verso è riportato: Io pur spero quantunque che sia tardi, ove si ha chiaro quantunque, come nella stessa copia. Per tutte queste ragioni, a me sembra che nel v. 10 debba leggersi quantonche, per quantunque. Né può fare impressione il segno mancante sull'o, in un trascrittore, che nella stessa ballata omette una parola (mal), nel terzo verso, e forse un che sul chavenga del v. 11; che pone un segno superfluo su l'affrena del v. 12 della seconda ballata, producendo una sconcordanza; e che, forse, altre inesattezze ha nella ballata terza, come io sospettai. Ad ogni modo, resta che le scorrezioni abbondano piú nei sonetti; e quest'osservazione potrebbe rafforzar la prima. Ma io ho qualche altro dubbio da esporre.

Come si sa, il P. nelle note degli abbozzi vaticani, quando si tratta di canzoni, usa il femminile, riferendosi al sostantivo cantio, espresso o sottinteso: usa, infatti, sempre transcripta. Inoltre, a c. 11 b, al v. 90 della canz. Nel dolce tempo, si ha: visum est et hanc in ordine transcribere; a c. 12 a, in testa alla canz. Amor se vuoi: hanc transcripsi et correxi; a c. 12 b, sulla seconda redazione della canz. Che debb' io far si ha, è vero, ad hec expedienda,

1 Cfr. CINONIO, CCXX, 7-8 (qui cita un son. del Petrarca: Tra quantunque leggiadre donne, e belle).

ma forse si riferisce alle correzioni della 2a redazione. Finalmente, alla stessa c. 13 a, sul frammento: Che le subite lagrime si ha inscriptam cantionem etc. Ma, quel che è piú, a c. 14 a, in testa alla ballata Amor, quand' io credea, si ha hoc est principium unius plebeie cantionis., e a piedi del foglio: hanc scripsi non advertens ecc.; e finalmente a c. 14 b, dopo l'ultima redazione della ballata Amor che in cielo, che è la terza delle nostre ballate, si ha hec videtur proximior perfectioni. Pei sonetti, invece, usa ora il maschile, riferendosi a sonettus, ora il neutro, riferendosi a sonitium (conf. c. 12 b, canz. Che debb' io far). Ma, indicando più sonetti, salvo il caso su citato, usa il maschile plurale: c. 7 a: transcripti isti duo; c. 5 a: habet Bernardus hos duos; 3 b hos duos... ecc. Che si cava da ciò ? Che trattandosi di sole ballate, per le quali il P. usa il femminile, ci aspetteremmo, al posto dell' haec, il femminile plurale has (come il maschile pei sonetti), e al posto di unum aliud, ultimum, quod, il femminile unam aliam, ecc. Ora, il trovare usato il neutro plurale non fa supporre che la nota si riferisca anche ai sonetti, secondo la regola latina, che vuole il neutro quando si riferisce a cose di genere diverso? Il Quarta capisce l' ordine retrogrado per tre ballate, tanto più che trascrivendole cosi, viene a trovarsi prima quella scelta da Confortino: non capisce perché il Petrarca si sarebbe dovuto baloccare a trascrivere in ordine retrogrado sei componimenti. Ora, in verità, io non capisco neppure perché il P. si sarebbe baloccato a scrivere in ordine retrogrado anche tre componimenti, quando quello scelto poteva esser posto all' ultimo, secondo l'ordine cronologico, e potea essere indicato, come lo fu, dalla nota! Vuol dire che la ragione dell'ordine retrogrado, se c'è, deve essere un' altra !

Per tutto ciò che il Quarta osserva sulla lezione elegit e sulle parole mancanti dopo magna; io lo ringrazio dell' aiuto efficace da lui dato alle mie ragioni. Ma il dissenso fra noi comincia subito, nell' interpretazione dell'inciso ad literam, nisi fallor, ut hic sunt. Gli editori, a spiegar quel dubbio, supposero che il P. trascrivesse sul quel foglio le rime

1 Cfr. SALVO-Cozzo, Le rime sparse ecc., in Giornale storico, XXX, 369 e segg., che solo ora posso consultare.

da un altro foglio. A me non parve accettabile questa ipotesi. Anche la nota (I), apposta qui alla seconda ballata, non dice nulla in suo favore: perché non è necessario ammettere l'errore nella trascrizione da un primo foglio: anzi è più facile che sia incorso nella trascrizione dell' abbozzo. Il P., quando gli capitò sotto gli occhi l'abbozzo, vide l'errore e lo corresse. Non vedevo, insomma, qui il bisogno di supporre una copia intermedia, se il P. potea dire che quei versi li avea dettati quasi come si trovavano in quel foglio, cioè senza molte correzioni. Infatti, confrontando l'abbozzo dell'ultima ballata si può vedere che il P. copia dall' ultima stesura, la quale gli sembrava già quasi perfetta. Perciò, a spiegar quel nisi fallor io supposi che il P. aggiungesse la nota, dopo di aver fatto quella copia, non avendo presenti gli abbozzi, ma riferendovisi a memoria. Certo, la mia è una supposizione come un' altra, ma non la credo affatto gratuita, come la dice il Quarta. V' è, per esempio, un luogo nelle note ai Trionfi, che mi fece sospettar che la nota vi fosse aggiunta più tardi.

Al n. 96 del II T. d'A. (ediz. Mestica) nel Cas. e nell' Ub. è questa notizia storica: « Correctum utrumque 1358, mercurii circa tertiam, ut puto, 12 septembris... » ; e l'Ub. agli ultimi versi del c. reca: << correctum utrumque mercurii puto ante primam post horam 3...» Questa notizia, che giustamente l' Appel dice poco chiara, ci dà un dubbio espresso coll' ut puto, o col puto, che io credo si riferisca al giorno di mercoledi e forse anche all' ora. Or bene, al v. 73 del I T. d'A. si ha la nota relativa alla stessa correzione, come crede giustamente il Mestica; ma in essa il tempo è preciso: hodie mercurii 12 septembris mane... Io mi chiesi: se la correzione si riferisce all' uno e all' altro canto (utrumque), perché la seconda nota non è precisa, come la prima, e come son le altre tre note cronologiche allo stesso Canto II? E sospettai che la nota dubitosa fosse aggiunta posteriormente, e che fosse lo stesso caso della nota in questione. Mi sbagliai? Non lo escludo: ma francamente a me non sembra più sicura la spiegazione del Quarta. Il quale crede che il P. non sia sicuro che questa nuova bella copia, che egli ora trae dagli abbozzi, sia perfettamente uguale a quella, che già ne trasse

e presentò a Confortino; perché nel copiare egli sempre mutava qualcosa. Ora, anche questa è un'ipotesi possibile, ma non piú probabile della mia; perché, cosí come si presenta la frase, il dubbio si riflette sulla composizione originale (dictavi), non sulla trascrizione fatta per Confortino. Ad ogni modo, questa è una quistione secondaria, su cui non vale la pena di fermarsi.

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Piuttosto, sono costretto a difendermi da un grave appunto, che mi fa il Quarta. Quando io suppongo che con l'unum aliud il P. si riferisce al primo sonetto non compiuto, il Quarta soggiunge che io prima metto quel sonetto insieme con gli altri, e poi ne lo escludo; e che ciò. che a prima vista poteva apparire come la miglior riprova della mia interpretazione, attentamente considerato, appare un grossolano abbaglio. Io non mi credo. infallibile, oibò! Ma qui mi pare che ci aggiriamo in un equivoco, che è bene diradare. Poiché, quando l'unum aliud postea si riferisca al primo sonetto, composto, ma non dato o mandato a Confortino, perché non compiuto; e quando allo stesso sonetto si riferisca l' inciso seguente quod hic est primum ecc.; quel sonetto non è escluso mentalmente dalla raccolta delle rime compiute e date a Confortino? Quindi, quell' haec deve riferirsi ai componimenti composti e mandati a Confortino, dai quali, naturalmente, è escluso il primo sonetto non compiuto. Il P., secondo me, intende dire: Questi (sonetti e ballate, e in ciò dire intende di componimenti compiuti, come fa quando accenna cosí, senz'altra indicazione, ai componimenti nelle note vaticane), li ho dettati quest' anno per Confortino, in ordine retrogrado, cioè dall' ultimo in su; e un altro poscia (cioè dopo tutti gli altri), che non mi son curato di finire, ma che ho scritto qui, perché non andasse perduto. Or, non intende con questo d' indicare tutta la raccolta per Confortino, compreso il sonetto non compiuto? Certo non è un'espressione matematicamente esatta; ma il Quarta sa benissimo che le note del P., scritte currenti calamo, e per proprio ricordo, non brillano tutte per troppa chiarezza. Finalmente, mi permetto di

1 Lascio star se perficere significhi anche condurre a perfezione, limare; il che non nego; ma osservo che il P. usa correpsi, correpta, correptum ecc.

domandare: il P., che riporta i frammenti

tendendo: scrissi questa nota perché non dimendelle varie redazioni di componimenti, perché | ticassi quali cose... (1). Ma resta sempre l'osta

qui avrebbe accennato a quel componimento non compiuto, senza riportarne il frammento, senza nessun' altra indicazione? Invece, a me pare che con la mia spiegazione tutto venga chiarito. E veniamo cosi all'ultima parte della nota: ex his autem elegit ipse ultimum quod hic est primum scripsi hoc ne elaberetur in totum que magna...

Gli editori posero il punto dopo ultimum, e il resto fecero un'altra frase. Il Cesareo e il Pellegrini lo posero dopo primum, e spiegarono: scelse l'ultimo, che qui è primo. Io accettai la spiegazione degli editori, mostrando inammissibili quelle del Cesareo e del Pellegrini; e ai dubbî di quest'ultimo, sulla regolarità grammaticale della frase: quod hic est primum, scripsi hoc..., ricorsi all'uso del relativo precedente il dimostrativo, citando, oltre gli esempi classici delle grammatiche, anche alcuni esempi del P. stesso. Il Quarta, come il Cesareo e il Pellegrini, pone il punto dopo primum: e con la sua spiegazione cadono molte difficoltà, che si opponevano alla spiegazione di quelli; perché egli riferisce la nota. alle tre ballate, e quindi l'ultima, che qui è prima, è chiaramente la prima di esse. Pel resto della frase, egli accoglie le mie osservazioni contro la possibile supposizione che si riferisca alla nota stessa, come per dire: scrissi questo per non dimenticarmi ecc.; aggiungendovi due gravi ragioni: che si accorderebbe male con l'in totum, e si verrebbe ad avere una sgrammaticatura, perché quello che prima è hoc diverrebbe poi quae. Il Quarta, invece, crede che la nota potrebbe compiersi cosi: scrissi hoc ne elaberetur in totum quae magno labore dictaveram ecc., spiegando: scrissi questo, vale a dire, feci questa copia perché non andassero del tutto perdute quelle cose che m'erano costata molta fatica.

Veramente, le due ragioni, che io opposi al possibile riferimento di quell'inciso alla nota stessa, ora m'accorgo che non hanno valore; perché il P. altra volta ha aggiunto proprio un inciso, riferentesi alla nota superiore. In fine della canzone Nel dolce tempo (c. 1b) si ha: Explicit, sed nondum correcta et est de primis inventionibus nostris: e poi: scriptum hoc 1351. Aprilis Jovis nocte concubia. Oltre a ciò, la sgrammaticatura sparisce in

colo dell'in totum, che anch'io non so accordare col senso della frase.

Contro la mia spiegazione poi il Quarta oppone due gravi difficoltà. Riferendosi alla regola citata del relativo precedente il dimostrativo, mostra con gli stessi esempî da me recati, che non si possa trattar di quell'uso, perché in tutti gli esempî il dimostrativo è a capo della proposizione. Verissimo: questo è l'uso costante. Ma non soffre esso eccezioni? Ripeto che non ho il tempo di ricercare; ma fortunatamente un libro comunissimo, La Sintassi latina mostrata con luoghi di Cicerone del Gandino (P. II, p. 44, nota 1), m'indica proprio un esempio, che fa al caso mio (tolto dal De finibus I, XVI): fugiendam improbitatem putamus: quod cuius in animo versatur, nunquam sinit eum respirare. Cosi, nei miei appunti, trovo registrato quest'esempio del P. (Familiares, vol. III, p. 252): At quod superest, minimum id quidem, ut auguror, nunc dum tecum loquor agitur. E, quantunque non sia perfettamente il caso nostro, anche quest'altro (id. id. 441): Quam ut nosse possitis... signis hanc describam suis. Qual meraviglia, dunque, che il P., scrivendo alla buona e per sé, sia caduto in un'eccezione, che pur avea trovata in Cicerone ed avea egli usata altra volta? Ma si potrebbe pure evitar questo scoglio, supponendo l'hoc un errore del collazionatore per hic, come altra volta gli accadde (specialmente nella nota alla pergamena B, dove si ha hoc, mentre l'autografo vaticano ha hic; e nel son. Se voi poteste, dove il Cas. ha hoc in scribendo mentre l'Ub. ha hic scribendo). In tal modo la nota direbbe: quel che qui è primo, lo scrissi qui, perché non andassse perduto..., con la ripetizione dell' hic, come si ha nella nota I, della stessa pergamena A.

Ma il Quarta vede un'altra sgrammaticatura nel contrasto fra i due relativi quod singolare e quae plurale. E di ciò mi preoccupai anch'io; tanto che alla prima interpretazione, che poneva in relazione il quae col quod precedente, ne sostituii un'altra, nella

1 Non vi sarebbe bisogno di esempi: tuttavia cf. Famil. I, 144, 1. 7; II, 297-8, II. 31-1; 315, l. 19; 558, I. 21; III, 312, 1. 12; 472-3 ecc.

quale il quae, singolare, si riferisce ad un sostantivo magna pars seguente.

Mi spiego meglio. A prima vista, io e il compianto Solerti, venimmo a compiere quel magna con ex parte, riferendo magna ex parte al sonetto mancante di soli due versi. In questo supplemento io solo, poi, mi confermai, vedendo il modo avverbiale magna ex parte adoperato di frequente dal P., non solo, ma anche come contrapposto appunto all'altro in totum. E spiegai cosi: perché non andasse perduto in tutto quello, che in gran parte era composto (cf. Petr. Fam. I, 368: quod magna ex parte iam feci). Ma mi preoccupai súbito, non solo del contrasto fra il quod singolare col quae plurale, ma ancor più del verbo singolare elaberetur col neutro plurale, particolarità sintattica del greco, non del latino, se mi soccorre bene la memoria, ma che, ad ogni modo, se ho visto bene, non ho trovata nelle opere latine del P. Ecco perché pensai a supplire la frase col nominativo magna pars, che avevo trovato di frequente nel P., anche col genitivo singolare. La frase quae magna pars eius erat o composita erat, me la spiegavo, o invece di quod magna pars, col relativo concordante con l'attributo, anziché col soggetto (cfr. per es. Petr. Fam. I, 295; ingenium, quae forma est animae); o meglio, invece di ea quae magna pars, con la soppressione del dimostrativo, come avevo trovato talora nel P. stesso, specialmente in alcuni incisi: Fam. I, 46: supervacuo comitur, quae jam placet; 144; quae vulgarior fama est; p. 308; sit Christi caritas, quae saeculi pumpa est; p. 336: quae non ultima solatii pars est; vol. III, p. 83: quae summa spei est ecc. E spiegai: quello che qui è primo, lo scrissi, (ora aggiungerei qui), perché non andasse perduta la maggior parte di esso, cioè quella che era la maggior parte di esso, già composta. Non sembra neppure prettamente latina questa frase? Allora non resta (e questa forse sarebbe la vera soluzione) che far punto anche. dopo totum, e spiegar: quello che qui è primo, lo scrissi qui perché non andasse perduto al tutlo. Il resto

1 Cfr. Fam. I, 21, 48, 79, 153, 177 (etsi non in totum, magna tamen ex parte), 368, 424; II, 201, 227, 246, 458 (ne in totum velim, quod ex parte); III, 30 (tota... magna ex parte), 153, 252, 499 ecc.

2 Cfr. Famil. I, 102, 266, 401; II, 288, 338, 399; III, 18, 77, 200, 219, 220, 260, 450, 457, 460, 499 ecc.

potrebbe essere il principio di un' altra proposizione.

Ma lasciamo andare la mia spiegazione al suo destino; e vediamo quella che vi sostituisce il Quarta. Io non voglio osservare che anche in essa quello che prima è hoc diventa poi quae ma come concilieremo il verbo singolare elaberetur col neutro plurale quae? E finalmente, non è più logico il timore che andasse perduto al tutto un frammento, anziché tre componimenti, di cui avea pur dato copia a Confortino, e serbava gli abbozzi, come si vede per la ballata Amor che 'n cielo? Quindi, se anche questa spiegazione non regge, bisogna aver pazienza, ed aggiunger, per ora, quest'altro indovinello ai tanti petrarcheschi. che aspettano ancora la soluzione.

Ricapitolando: son di fronte due spiegazioni: la mia, che riferisce la nota a tutte le rime della pergamena A e che a me pareva e pare, ma forse m'inganno, che spieghi tutto; e quella del Quarta, che la riferisce alle sole tre ballate qui riportate, lasciando nel buio l'altra non compiuta, e che urta in gravissime difficoltà, che bisogna eliminare per accoglierla interamente.

Poiché per lui i sonetti non hanno che fare con le ballate. Qualcosa di simile, come abbiam visto, suppose il Pellegrini; ed io obbiettai (16) che la mancanza di stacco fra un componimento e l'altro, mentre un margine abbastanza largo si vede sull'alto della pergamena, ci mostra che in essa sono compresi tutti quei componimenti, ai quali si riferisce la nota posta a pié di essa. Che, se cosí non fosse, il collazionatore non avrebbe in qualche modo usato un mezzo per avvertire dove cominciassero i componimenti, a cui si riferisce la nota?» Ma è chiaro che questa obbiezione non avrebbe più valore, se si leggesse nella nota haec tria; perché in questa dicitura sarebbe appunto l'indicazione desiderata. Ma il Quarta va piú innanzi; e, badando alle molte forme dialettali, che si hanno nei sonetti, forma due ipotesi che i sonetti siano del P., ma passati per parecchie copie di mano veneta; che i sonetti non sian del P. ma di un rimatore veneto suo pedissequo imitatore. Egli non esita a preferir la seconda. Ed esamina alcune forme strane dei sonetti, in rapporto ad altri pubblicati nel 1858 dal Thomas, per mostrarne la somiglianza. Io, ripeto, non

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