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emanciparsi completamente dalle ingerenze imperiali nelle nomine ecclesiastiche e, possibilmente, per far valere la propria voce anche nelle cose temporali; dall'altro si cerca di conservare i diritti di supremazia acquisiti et esercitati per parecchi secoli. La vittoria, arride al papato che, perseguendo il piano teocratico incominciato a svolgere da Gregorio VII, arriva al colmo di sua potenza durante il pontificato di InnocenzoŢII, dinanzi al quale s’umiliano tutti i sovrani.d'Europa e dal quale ricevono in feudo i loro regni come se fossero vassalli di santa Chiesa; intanto l'impero deve volgere altrove gli sforzi, cioè a domare i ribelli comuni dell'alta Italia che, nonostante le replicate sconfitte, finiscono col battere il Barbarossa a Legnano costringendolo cosí a ricononoscere le libertà comunali. La potenza imperiale fiaccata, ma non vinta, aspetta tempi migliori, e ritorna alla riscossa con Federigo II e contro il papato e contro i comuni. Questa volta la lotta è più accanita e violenta che mai; lo scopo de' due combattenti non è più soltanto di respingere l'avversario entro i limiti della sua giurisdizione, ma ci va di mezzo l'esistenza stessa dell'istituzione. (Fu allora che i due nomi di Guelfo e Ghibellino, funesto dono della Germania all'Italia, trapiantati nella penisola assunsero il significato di partigiano della Chiesa il primo, dell'Impero il secondo, e riempirono di guerre e stragi il bel paese schierando finanche i cittadini della medesima città sotto le due nemiche bandiere).

Il papato vorrebbe ora levarsi d'attorno la minaccia continua dell' impero che, con l'occupazione del reame di Sicilia da parte degli Svevi, gli è divenuto un vero incubo; l'imperatore sa di pugnare per un alto principio, che con lui deve vincere o morire, e perciò né scrupoli religiosi né considerazioni morali lo trattengono dall'usare ogni arme lecita ed illecita contro il temuto rivale. Tutto inutile; i tempi sono cambiati, e Federigo non ha fatto i conti con la nascente nazionalità italiana che informa la resistenza dei comuni. Benché di nascita, carattere e cultura piú italiano che tedesco, e parte non piccola egli stesso nella formazione della letteratura nazionale, l'imperatore svevo rimane pur sempre un estraneo alla maggioranza del popolo italiano, il quale decide la tenzone in favore del papato. Rapido come una meteora passa via il « terzo vento di Soave », e con lui tramonta la fortuna dell'impero. Ma l'odio implacabile dei papi non s'appaga ancora, ed uno dopo l'altro cadono vittime

di quel rancore funesto i discendenti dell' infelice imperatore, Manfredi e Corradino; si stabilisce sul trono insanguinato di Sicilia il braccio destro della Chiesa, Carlo d' Angiò, autore materiale della distruzione di casa Sveva.

Però il papato non gioisce a lungo della vittoria; esso non s'accorge che le due potestà sono strettamente collegate assieme, che, cardine e centro della civiltà medievale, i due luminari traggono nutrimento dalla medesima radice, che insomma la caduta dell'uno avrà per conseguenza necessaria la caduta dell'altro. La lotta secolare li ha estenuati ambedue; cosí non potranno resistere alle nuove energie delle individualità nazionali, che, lentamente delineantisi sopra lo sfondo disordinato dell'età di mezzo, daranno l'ultimo crollo a quel mondo col suo papa e col suo imperatore; ogni nazione pretenderà d'avere una vita indipendente, un organismo proprio, e combatterà ugualmente ingerenze straniere e velleità di dominio universale. Questa causa principalmente determinerà la mala riuscita de' due ultimi tentativi di rimettere il mondo sulle antiche vie, il primo opera d'un papa ambizioso, il secondo d'un imperatore bene intenzionato, Bonifazio VIII ed Arrigo VII.

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Di natura violenta ed ambiziosa, Bonifazio VIII pensò valersi dell' indebolimento dell'impero a rialzare la potenza temporale del papato e a far rivivere la politica di Gregorio VII, senza possederne l'ingegno e l'altezza morale. Nessun pontefice prima di lui aveva con tanta veemenza e risolutezza proclamato la supremazia della Chiesa sullo Stato, « quod Romanus Pontifex imperat super Reges et Regna » ;1 nessuno aveva avuto cosí poco scrupolo nella scelta de' mezzi, come lui, ch'era intento unicamente ad arrivare alla meta agognata. Assicuratosi il dominio della Campagna romana con una guerra spietata contro i potenti Colonnesi, le sue mire si rivolsero tutte alla Toscana e trattò, per mezzo dell'Elettore di Sassonia, con Alberto d'Austria affine di ridurla a feudo della Chiesa (volebat sibi dari totam Tusciam).2

Firenze avea finito allora allora di consolidare la costituzione democratica con i terribili Ordinamenti di Giustizia del 1293 e, rimanendo pur fedele alla tradizionale politica guelfa, alla

1 Epistola al Vescovo e all'Inquisitore di Firenze. V. BARTOLI, Storia della letteratura italiana, vol. V, P. 127.

2 Vedi motto in LEVI, Bonifazio VIII e le sue relasioni col comune di Firenze, Roma, 1882.

quale dovea gran parte della sua potenza, non intendeva punto rinunziare alla propria indipendenza. Perciò, accortasi delle ambiziose mene del pontefice, seppe sventare tutti gl' intrighi orditi alla corte di Roma e mantenere intatte le istituzioni popolari. La città era in quel tempo tutta in armi e in discordie per la divisione dei Bianchi e dei Neri, i primi democratici ed indipendenti, i secondi feudali ed aristocratici. Papa Bonifazio, simulando di voler metter pace tra i cittadini, entrò di nascosto in trattative coi Neri e credé, per mezzo del loro aiuto, di potersi assoggettare Firenze. Parecchi furono i tentativi; tutti però con esito negativo; neppure la venuta di Carlo di Valois, colla conseguente vittoria di parte Nera ed esilio di parte Bianca, mutò gran cosa nella costituzione di Firenze, ché il popolo, vigile custode delle sue libertà, costrinse i nuovi reggitori ad accomodarsi alle istituzioni democratiche. Cosí svanirono i sogni teocratici di Bonifazio, e l'effettuazione de' suoi piani di dominio universale dovette trovare un ostacolo ancor maggiore proprio nel suo amico d'un tempo, nel re di Francia, che a capo di una nazione già solidamente costituita, rigettava ogni ingerenza papale nelle faccende interne dello stato. Alle bolle e scomuniche papali rispose Filippo il Bello coi trattati anticuriali de' suoi giuristi e, in modo piú brutale, coll'attentato d'Anagni.

Questa sconfitta del papato politico non fu né nobile né grande, ma ormai i tempi erano mutati, e l' insulto fatto all' autorità delle « somme Chiavi » non valse a sollevare l'indignazione e la protesta dei fedeli, anzi passò quasi senza compianto. La dignità papale avvilita ed umiliata non ebbe più la forza di resistere alle soverchianti ambizioni del re di Francia che, creato un papa francese, l'attirò entro i propri stati ad Avignone, dove i pontefici divennero strumenti più o meno docili nelle mani dei Capetingi. L' Italia per la prima volta priva delle due potestà, versava in uno stato di disordine e confusione tali da rallegrarsi ben poco della riacquistata libertà; anzi, ai più eletti pensatori del tempo appariva quell'anarchia, (che veramente era preparazione d'una nuova civiltà), effetto della mancanza dei due soli, che avevano per parecchi secoli illuminato il mondo e l'Italia.

1 Tuttavia il generoso avversario di papa Bonifazio, Dante Alighieri, sentí ribollirsi l'animo di sdegno e pianse l'abiezione in cui era caduto il vicario di Cristo. (Purg., XX, 86-90).

Mostratosi il papato inetto a restaurare nella penisola la pace e la concordia, non rimaneva che porre tutte le speranze nell'altro luminare, nell'impero; ad una terza probabilità non si pensava ancora.

Nel 1308 gli elettori inalzarono a re di Germania, Arrigo, conte di Lussemburgo, signore poco potente, ma uomo giusto ed imparziale, dotato di molta bontà e di gran cuore. Da mezzo secolo, cioè dalla morte di Federigo II in poi, gl'imperatori non erano piú discesi in Italia, e perciò la decisione di Arrigo VII di passare le Alpi e di cingere la corona imperiale sollevò gran rumore nella penisola, timore e sospetto nei Guelfi, speranze ed illusioni ne' Ghibellini e ne' Bianchi. Le migliori intenzioni animavano Arrigo; nemico dichiarato dei due nomi di Guelfo e Ghibellino, « venne giú, discendendo di terra in terra, mettendo pace come fusse un agnolo di Dio». (Dino Compagni, Cronica III, 24). Questa volta l'imperatore intraprendeva la calata in condizioni speciali, accompagnato, non come al solito, dalle scomuniche papali, ma col consenso e colla benedizione del pontefice che sperava di trovare in lui un valido appoggio contro le soverchianti pretese della casa di Francia. Era davvero uno spettacolo mai piú visto, dopo tanti secoli di lotta, Pietro e Cesare pienamente d'accordo, sicché noi comprendiamo bene l'entusiasmo destato da questo fatto nei contemporanei, soprattutto in Dante. Al primo impeto le città gli aprirono le porte e lo accolsero come signore, ma ben presto la resistenza di Brescia lo fece accorto delle difficoltà che l' aspetavano.

Dirigevano le fila del partito guelfo i Fiorentini, i quali temevano, ed a ragione, che la vittoria dell'impero potesse recar danno alla loro costituzione democratica; nominalmente il capo ufficiale della lega guelfa era Roberto, re di Napoli.

Ma più potente della politica antimperiale del Comune di Firenze e del re angioino, ostacolava l'impresa d'Arrigo un formidabile nemico, che avea già deciso la fine della teocrazia medioevale con la caduta di Bonifazio VIII. Erano già lontani i tempi del Barbarossa, quando le bandiere comunali s'abbassavano riverenti al solo passare dell'aquila imperiale; la nazionalità italiana andava sempre più affermandosi ed il sentimento nazionale spuntava, incosciente ancora, dappertutto in Italia: nei Milanesi, che

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al grido di << moriantur Teutonici omnes!'» si slanciavano contro le soldatesche germaniche; nei Fiorentini, che minacciavano di gravi pene chi dipingesse l'aquila imperiale e promulgavano i bandi: « Ad confusionem et mortem regis Alamanniae »; infine nello stesso re Roberto, francese d'origine, che scriveva qualche anno più tardi « lingua Germanica, quae consuevit producere gentem acerbam et intractabilem ». Cosi il popolo italiano, a dispetto dei poeti e dei giuristi quasi unanimi nell'esaltare Arrigo, sentiva con sicuro intuito che certamente non spettava al re della Magna ed a' suoi cavalieri tedeschi di risanare le piaghe d'Italia.

Di fronte all'avversione ostinata dei Guelfi, l'imperatore era costretto a scendere dal suo seggio ideale e parteggiare apertamente co' Ghibellini, perdendo cosí anche quel po' di fascino e d'ammirazione che aveva destato la sua attitudine imparziale verso i partiti. Il papa, istigato dalla Francia, diveniva sospettoso e cercava di nascosto con tutti i mezzi d'impedire l'incoronazione d'Arrigo a Roma, la quale avvenne tuttavia tra lo strepito delle armi nel 1312, costretti per volontà di popolo i legati pontifici a porre sul capo del re di Germania la corona d' imperatore dei Romani. Risorse allora l'antagonismo tra le due potestà: Clemente V pretendeva che l'imperatore abbandonasse subito Roma e non assalisse il regno di Napoli, perché feudo della Chiesa; Arrigo rispondeva proclamando altamente l'inviolabilità dell'impero e la sua superiorità sopra tutti i re e principi della terra: «Regnum Siciliae et specialiter insula Siciliae sicut et ceterae provinciae sunt de Imperio, totus enim mundus imperatoris est ». Ma purtroppo alle nobili intenzioni dell'« alto Arrigo » non corrispondevano i fatti, e le sue forze già molto indebolite si consumavano in vani assalti sotto le mura di Firenze. Abbandonato l'infruttuoso assedio di questa città, l'imperatore allestiva con febbrile attività una spedizione contro il suo più pericoloso nemico, Roberto d'Angiò, chiamando a raccolta tutti i partigiani dell'impero; e già la risposta a quell'appello lasciava concepire le piú rosee speranze d'un futuro favorevole alle armi imperiali, quando la morte repentina

1 V. Nicolai Botrontinensis relatio de Henrici VII imperatoris itinere italico, ed. Heyck Innsbruck, 1888, p. 18. 2 V. La cronica di Dino Compagni, ed. scolast. Del Lungo, Firenze, 1902, p. 201, nota 18a.

3 V. ED. ARMSTRONG, L'ideale politico di Dante, Bologna, 1899, p. 30.

DÖNNIGES, Acta Henrici VII, II, 65.

d'Arrigo a Buonconvento nel 1313 troncò in sul nascere tante speranze e tante illusioni.

Bonifazio VIII ed Arrigo VII, nonostante le diversità di natura e d'educazione, hanno nella storia delle idee medioevali una innegabile affinità spirituale; essi sono le due ultime manifestazioni sincere dello spirito cattolico ed universale, che soggiace fatalmente all'avanzarsi vittorioso del nuovo sentimento nazionale, che spezza definitivamente l'incantesimo dei due luminari e scinde la caotica confusione dell'età di mezzo in nazioni ben distinte di lingua, di costumi e d'interessi. Bonifazio è l'ultimno papa che abbia affermato risolutamente, anzi violentemente, la superiorità della Chiesa sullo Stato; Arrigo è l'ultimo imperatore, il quale abbia piena ed illimitata fiducia nei destini eterni dell'impero e si mostri, avendo pure un carattere piú buono e più mite del feroce papa, non meno caldo nel far valere i diritti universali dell' istituzione che incarna.

Tra queste due figure,' che rappresentano per l'ultima volta l'idea politica medioevale, s'aggira il pensiero dell'Alighieri, e le sue opere riflettono come limpido specchio i sospetti, l'antipatia e l'odio sorti contro le ambizioni del primo, le speranze, i desideri e l'entusiasmo destati dai nobili intendimenti dell' altro. La sua mente, pure cosí vasta e profonda, non sa uscire da questo circolo fatato e rimane, anche quando ogni speranza di richiamare in vita i due principî universali sarà svanita, sempre attaccata a quel mondo che precipita verso la fine. I mutamenti avvenuti sotto i suoi occhi, o non li cura o li rigetta come causa principale dei dissidi e delle discordie che sconvolgevano l'Italia d'allora.

Il successore d'Arrigo, Ludovico il Bavaro, ha ancora il titolo e la pretesa d'imperatore romano, ma in realtà non è che la caricatura del monarca medioevale. La sua contesa con Giovanni XXII, papa degno davvero dell'avversario, ci mostra le due potestà nel massimo grado d'abiezione; il papa è completamente asservito alla Francia, l'imperatore combatte senza convinzione e serietà, e passa con leggerezza incredibile da un estremo all'altro, dall'elezione d'un antipapa alla sottomissione piú servile di fronte al pontefice. Si può senza dubbio affermare che a Ludovico, d'altronde non privo di buone qualità, mancò l'altezza d'animo necessaria a sostenere la lotta per

1 Cfr. I. DEL LUNGO, Da Bonifacio VIII ad Arrigo VII, prefazione.

l'impero, e fu piú che altro uno strumento in mano de' giuristi e de' monaci, che si servivano della sua autorità nelle loro controversie e dispute. Durante il suo regno, però non per opera sua, si ebbero le importanti diete di Rense e Francoforte (1338), nelle quali gli elettori tedeschi, stanchi delle ingerenze papali, dichiararono valida l'elezione imperiale anche senza la conferma del pontefice: « ex sola electione est Rex verus et Imperator romanus censendus». Cosí era rotto anche quel tenue filo che manteneva un contatto almeno apparente tra le due potestà, e l'impero germanico rinunciava definitivamente alle sue pretese universali, accontentandosi della sua estensione reale.

Mentre una nuova elezione crea in Carlo IV dapprima l'antimperatore, poi il successore di Ludovico, l'Italia sembra quasi dimenticare la mancanza dei due luminari; pure non asseconda l'audace impresa di Cola di Rienzi, che primo concepisce e tenta d'attuare l'idea d'una Italia libera ed indipendente, nuovamente signora del mondo. Stanco della discordia e dell'oppressione dei nobili dominanti, il popolo di Roma si solleva e fonda un governo popolare, la cui anima è il fantastico tribuno. Le città vicine riconoscono il nuovo dominatore, i nobili sono cacciati e vinti; la pace e la sicurezza ritornano a regnare, dopo tanto tempo, nella Città eterna, nella Campagna romana. E allora che Cola crede venuto il momento di mettere in opera il suo ardito e geniale disegno: dichiara decaduti i diritti degli elettori germanici, invita i signori e le repubbliche d'Italia a mandare i loro delegati sul Campidoglio con lo scopo di unire tutta la penisola sotto l'alta potestà di Roma, vagheggia l'elezione d'un imperatore latino. Ma lo spirito municipale troppo sviluppato in Italia non permette che il generoso sogno del tribuno diventi realtà. Gl' Italiani, gelosi delle libertà comunali, rispondono fiaccamente all'esortazione di stringersi intorno a Roma, la mancanza d'attitudini pratiche nella politica alienano al nuovo reggitore le simpatie e l'appoggio del popolo romano, i nobili incautamente sprigionati ed il papa, insospettito del rivolgimento politico che minaccia sottrarre Roma al suo dominio, si uniscono in danno dell'incauto tribuno, il quale perde il tempo in vane pompe e mascherate. In questo modo non riesce difficile a' suoi nemici di sobbillargli il popolo

IV. GREGOROVIUS, op. cit., vol. VI, p. 220, nota 2a.

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contro, sicché alla fine, vedendosi abbandonato dagli stessi partigiani, si dà a precipitosa fuga troncando ignominiosamente l'impresa si felicemente incominciata.

Ben poche speranze invece suscita in Italia Carlo IV, il quale, da uomo positivo e calcolatore, si tiene lontano dagli ambiziosi sogni di dominio universale, pago di consolidare la potenza della sua casa in Germania. La calata sua in Italia assomiglia piú che altro ad un viaggio commerciale, il cui scopo principale sia di spillare quattrini dalle città italiane vendendo loro gl' inalienabili diritti dell' impero. Sordo alle sollecitazioni di Cola e del Petrarca di raddrizzare al di qua delle Alpi la potestà imperiale, Carlo IV ci dimostra che ormai la serie degli imperatori medioevali è finita.

Intanto in Avignone si susseguono papi inetti e corrotti, non curanti degli alti destini della Cristianità, unicamente intenti ad accumulare tesori per i loro parenti e dediti completamente ai piaceri mondani, Giovanni XXII, Benedetto XII, Clemente VI; la Chiesa, priva del fascino misterioso che le veniva dalla Città eterna, versa in uno stato d' umiliazione e corruzione mai piú visto.

Ben lontano dall'inflessibilità dommatica di Dante, Francesco Petrarca, ugualmente facile alle illusioni ed allo sconforto, opera e scrive in questo tempo di dissoluzione completa delle istituzioni medioevali. Egli non ha dimenticato del tutto il passato e sente ancora dell'attaccamento e dell'affezione per i due luminari, che stanno per spegnersi o, meglio, che sono già spenti. Ma ciò non gl'impedisce di accogliere entusiasticamente e calorosamente la sollevazione di Cola che, in fondo, vuol dire, l'Italia essere già stanca di papi ed imperatori; anzi, in questo momento, il Petrarca sembra trovarsi più vicino che mai all' avverarsi delle sue speranze e de' suoi desideri politici.

Roma vedrà ancora, qualche anno avanti la morte del suo cantore, papa ed imperatore passare fraternamente uniti per le sue vie,' ma questo avvenimento insolito, che sarebbe stato il sogno supremo di Dante, non desterà piú l'entusiasmo e l'ammirazione degl' Italiani, perché papato ed impero, nel loro significato medioevale, saranno ormai morti nel cuore degli uomini. Finanche il vecchio Petrarca, cosí facilmente accessibile alle illusioni, serberà il silenzio sopra questo fatto; che n'avrà egli pensato ??

I V. GregoroVIUS, op. cit., vol. VI, p. 424.

2 La risposta non è davvero facile, né io presume

I.

STATO E CHIESA

DANTE ALIGHIERI.

1). L'utopia monarchica e l'Imperatore ideale.

La letteratura politica medioevale si divide in due scuole, le quali però non sono sempre chiaramente distinte. Tutte e due pongono come base e punto di partenza d'ogni diritto Dio, creatore e reggitore dell' universo; ma l'una, la cosi detta guelfa, considera l'autorità dello stato derivata mediatamente da Dio, cioè per mezzo dell'autorità ecclesiastica, e perciò dipendente da questa; l'altra, che si suol chiamare ghibellina, afferma l' immediata derivazione dello stato da Dio, e conseguentemente l'indipendenza dello stesso di fronte alla Chiesa. La prima, piú strettamente e rigorosamente medievale, subordina tutto alla potestà ecclesiastica, la seconda, rimanendo ancora tra i limiti del pensiero scolastico, fa già un bel passo innanzi, perché dà una finalità ed un'esistenza propria alla vita terrena, e rivendica all'attività civile e politica i suoi diritti. Campioni principali della scuola guelfa sono San Tommaso d'Aquino, il quale però si mantiene molto moderato, ed i suoi scolari Egidio Colonna e Bartolomeo da Lucca, di sentimenti più recisamente teocratici; 1 la scuola ghibellina trova invece un po' più tardi i suoi rappresentanti

rei darla. Lo Zumbini (Studi sul Petrarca, p. 194-200) fondandosi sopra parecchi passi del Petrarca che dimostrano ancor sempre viva la riverenza del medesimo per l'impero e sopra un'epistola del Salutati, (affine al nostro poeta negli ideali politici), che narra enfaticamente l'entrata in Roma di Urbano V e Carlo IV, crede che il vecchio poeta provasse ugualmente gioia immensa all'apprendere sí lieta novella. A me sembra invece che il silenzio del Petrarca, il quale era solito d'espandersi anche troppo sui fatti che entusiasmavano il suo spirito, sia significativo e ci dia un indizio sicuro che la sua fede nell'imperatore indegno della propria missione fosse, se non spenta, raffreddata di molto.

I V. F. SCADUTO, Stato e Chiesa negli scritti politici dalla fine della lotta per le investiture sino alla morte di Ludovico il Bavaro, Firenze, 1882, p. 37; cfr., specialmente per Dante e Marsilio, anche RICTZLER, Die litterarischen Widersacher der Päpste zur Zeit Ludwig des Baiers, Leipzig, 1874. Ultimamente la letteratura sull'argomento è stata arricchita dal buono studio di R. SCHOLZ, Die Publizistikzur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz' VIII, Stuttgart, 1903.

maggiori in Dante Alighieri ed in Marsilio da Padova. Alla quistione generale tra Stato e Chiesa, nel medio evo, si collega tanto strettamente quella speciale tra impero e papato, che per molti, serva d'esempio Dante, i due termini stato ed impero coincidono e sono la medesima cosa.

Il medio evo, intimamente e profondamente religioso, vedeva in tutto riprodotta l'immagine di Dio, e la realtà intera non era riguardata che come un grande specchio che riflettesse l'essenza della Divinità. Mai come allora furono cosí intime e cosí frequenti le relazioni e gli scambi tra il cielo e la terra, tra l'umano e il divino. Si direbbe quasi che la mistica scala di Giacobbe congiungesse realmente il nostro mondo al Paradiso, e che dalla stessa scendessero continuamente gli angeli a confortare i mortali e questi vi salissero per attingere alla fonte inesauribile dell'amore divino. Unico e sovrano regnava l'ideale divino, centro ed asse dell' universo, da cui nasce ed a cui ritorna ogni cosa; e gli uomini inconsapevolmente divinizzavano tutto, dalle umili alle piú alte cose, e San Francesco, nel suo fervore ingenuo, chiamava ugualmente suo fratello in Dio il sole, la luna e gli elementi. Questo spirito mistico compenetrava di sé tutte le manifestazioni della vita medioevale ed informava non soltanto la poesia, ma finanche la scienza e la politica del tempo. Dante, che assomma in sé tutta la vita ed il sapere della sua età, sente potentemente l'influsso di quell' idea, che si estrinseca in vari modi in tutte le sue opere dando a queste un' impronta speciale con la parte importante che hanno nella Commedia, nella Vita Nuova e nella Monarchia, gli attributi numerici della Divinità cristiana, l'uno ed il tre. Cosi l'argomento dell' unità divina serve mirabilmente alla sua dimostrazione della superiorità della monarchia sopra qualsiasi altra forma di governo, e della necessità imperiosa che l'umana famiglia sia retta da un unico principe, immagine fedele in terra del Signore dell' universo.

Già prima di lui San Tommaso ed Egidio Colonna avevano, tra le differenti forme di governo, dichiarato la monarchia esser preferibile a tutte, perché soltanto con essa si raggiunge lo stato perfetto dell' unità.' Dante rincalza quest'opinione con nuovi e persuasivi argo

1 V. SCADUTO, op. cit., p. 32 e CARLO CIPOLLA, Il trattato "De Monarchia, di Dante Alighieri e l'opuscolo "de potestate regia et papali, di Giovanni da Parigi, Torino, 1892, p. 28.

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