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il << buon Tito», il quale distrusse Gerusalemme, sempre per volontà superiore, allo scopo di vendicare la morte del Redentore sugli Ebrei :

Poscia con Tito a far vendetta corse Della vendetta del peccato antico (Par., VI, 92-93).1

Poi un lungo silenzio nella serie degl' imperatori romani, che corrisponde ad un periodo di prosperità e floridezza dell' impero fino a Costantino, il quale segna la crisi, il principio

di decadenza nella storia della monarchia di Roma. Egli fu il primo a strappare la «tunica inconsutile » (Mon., III, 10), la sacra ed inviolabile unità dell'impero, cedendo Roma, la capitale dell' Orbe, al Pontefice. Dante scusa l'opera sua dissolutrice colla buona intenzione, lo pone finanche nel Paradiso tra le anime giuste :

L'altro che segue, con le leggi e meco,
Sotto buona intenzion che fe' mal frutto,
Per cedere al Pastor si fece greco

(Par., XX, 55-57).

però non potrà perdonargli mai le conseguenze disastrose di questo suo atto inconsiderato, causa prima di ogni disordine e confusione nel mondo. Costava ben cara all'impero la conversione di quest' imperatore, se il prezzo doveva esserne lo smembramento e la rovina della istituzione intangibile!?

Dopo Costantino che trasportando la sede dell' impero da Roma a Bisanzio « l'aquila volse Contro il corso del ciel » (Par., VI, 1-2),

1 V. pure Purg., XXI, 82-84.

V.

2 Dante parla spesso di quest'imperatore, quasi sempre a proposito della donazione: Mon., II, 12: “O felicem populum, o Ausoniam te gloriosam, si vel nunquam infirmator ille imperii tui natus fuisset, vel nunquam tua pia intentio ipsum fefellisset!,,; Inf., XIX, 115-117; Inf., XXVII, 94-95; Par., VI, 1-3. Il POLETTO (Alcuni studi su D. A. come appendice ecc., Siena, 1892) App. VI, pp. 151-182) osserva molto acutamente, essere avvenuto in Dante col tempo un mutamento in riguardo alla donazione costantiniana. Nell' Inferno (XIX, 115-117, Dante biasima l'atto di Costantino senza alcun temperamento, nel Purg. (XXXII, 137-138) attenua la riprovazione con un "Forse con intenzione sana e benigna „, infine nel Parad., (passo cit. XX, 55-57) e Mon. (cit, sopra II, 12) ammette senza restrizioni la buona intenzione. Questa concordanza non è priva d'importanza per la cronologia del de Monarchia, il quale appartiene probabilmente all'ultima fase del pensiero dantesco, a quella delle due ultime cantiche.

Dante non ricorda piú che un imperatore romano antico,' Giustiniano:

...son Giustiniano,

Che per voler del primo Amor ch'io sento, D'entro le leggi trassi il troppo e il vano

(Par., VI, 10-12).

Dunque più che per le sue conquiste guerresche, egli è salvato dal gran mare dell'oblio per l'immenso lavoro, compiuto durante il suo regno, del riordinamento delle leggi. L'efficadell'Alighieri, quand' erano in fiore le scuole cia di quest'opera riviveva gagliarda a' tempi

di diritto, ma purtroppo il mondo e l'Italia disviavano non ostante Giustiniano che, per mezzo della sua riforma legislativa, aveva avviato l'umanità pel retto sentiero della giustizia imperiale (Purg., VI, 88-90).

Arrivati a questo punto, faremo una sosta nella rapida corsa attraverso ai secoli, e tratteremo anzitutto della questione dei miracoli nella storia romana. È stato osservato? che Dante cita, a dimostrazione della sua tesi imperialista, i miracoli della storia romana nel Convivio (IV, 4-5) e più espressamente ancora nel de Monarchia (II, 4), invece non ne parla nella Commedia (Par., VI, 1-93); dalla qual cosa si potrebbe dedurre una certa discrepanza tra que' due trattati ed il « poema sacro ». Lasciata da parte l'èra imperiale, perché essa è posta in tutte e tre le opere sotto la diretta azione della volontà divina, restringeremo la dimostrazione all'epoca repubblicana. Si pensi primieramente al carattere ed allo scopo differenti delle due opere in prosa da un lato, e della Commedia dall' altro, la cui azione si svolge in un ambiente soprannaturale, dove tutto parla della miracolosa potenza di Dio. Qui dunque non v'era bisogno d'uno speciale ed espresso accenno al miracolo, tanto piú che l'episodio ha luogo tra l' imperatore Giustiniano e Dante, ambedue persuasi e convinti della divina origine della dominazione romana. Sarebbe davvero ridicolo che uno spirito beato e sovrappiú imperatore insistesse sul miracolo nelle meravigliose vicende del « sacrosanto regno» e le dichiarasse opera diretta di Dio nel Paradiso, nel quale risplende l'aquila gemmata

1 Chiamo cosí tutti gl'imperatori anteriori al completo sfacelo dell'impero per distinguerli da quelli posteriori alla rinnovazione dell'impero per opera di Carlomagno, che chiamerò medioevali,

2 Cfr. CIPOLLA, pag. 59.

2.- IL GIORNALE DANTESCO.

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dai quali traspare chiaramente che anche nella Commedia, come nelle altre due opere, è ammessa un'azione diretta ed immediata della divina Provvidenza sulle sorti di Roma repubblicana.

Non saranno mai abbastanza rilevati l'alto concetto e l'entusiasmo immutabile che animavano l'Alighieri per Roma, per quella città verso la quale guardavano i popoli con un misto di sgomento e d'ammirazione, e di cui, se non più il dominio politico, risentivano sempre l'influsso religioso e civile. Roma rimaneva ancora, sia pure nominalmente, il « caput mundi » per la maggioranza dei fedeli, ed in modo speciale per gl' Italiani, i quali la consideravano con piú ragione qualcosa di proprio e di nazionale. Dessa è la sede voluta da Dio del papato e dell' impero, della doppia potestà ecclesiastica e civile; dessa fu il luogo dove si svolsero le mirabili gesta del popolo romano e i martiri cementarono la fede col loro martirio, sicché Dante ne dice: « E certo sono di ferma opinione che le pietre che nelle mura sue stanno siano degne di reverenzia; e 'l suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per gli uomini è predicato e provato » (Conv., IV, 5). I suoi cittadini ebbero le medesime virtú, gli stessi attributi del monarca ideale, furono disinteressati ed alieni dalla cupidigia come Fabrizio e Cincinnato, giusti ed ossequienti alle leggi come Camillo, amanti della libertà come Bruto e Catone, pronti al sacrifizio per

1 V. de Mon., II, 4: “ miraculum est immediata operatio Primi, absque cooperatione secundorum agentium, ut ipse... Thomas probat,.

2 Cfr. i passi analoghi in de Mon., II, 10 e Conv., IV, 5: E non pose Iddio le mani quando per la guerra d'Annibale: li Romani vollero abbandonare la terra, se quello benedetto Scipione giovane non avesse impresa l'andata in Affrica per la sua franchezza? „

amore della patria come Muzio ed i due Deci; infine, uniti assieme e formanti un < Popolo santo, pio e glorioso », trascurarono il proprio comodo e s'accinsero alla conquista della universale dominazione col fine puro e disinteressato di procurare all'umana famiglia, unificata sotto il sacrosanto segno della giustizia, la pace e la libertà (De Mon., II, 5).

Anche al piú superficiale osservatore apparirà manifesto, quanto fosse lontano dalla verità storica il concetto che Dante era andato formandosi dell'antica Roma e della sua storia. Egli, da vero uomo medioevale, vedeva quei fatti attraverso la lente cristiano-morale, che falsava la realtà e cercava in tutte le azioni ed in tutte le cose il dito della divina Provvidenza ed il fine ultimo morale. Dunque, come abbiamo veduto, le vicende storiche di Roma, sempre subordinate e dipendenti dallo svolgimento della Chiesa, dimostrano ancora viva e sussistente nel nostro l'idea medioevale della evoluzione dell' impero romano.

Però dobbiamo ben distinguere la filosofia della storia imperiale prettamente teologica quale Dante la professava, dalla concezione della monarchia ideale ch' egli vagheggiava. Quest'ultima segna indubbiamente un progresso sulla prima, e si mostra piú moderna, in quanto che la necessità della monarchia temporale e la sua indipendenza di fronte al papato sono dichiarate indispensabili alla felicità degli uomini. Invece a voler essere conseguenti, la storia dell' impero ci condurrebbe, come ben ragiona il Cipolla,' alla conclusione che, diffusa la religione cattolica e preparata la sede al papato, l'impero non avesse piú ragione d'esistere. Questa non lieve divergenza tra due concetti cosí affini, come la storia dell' impero e la sua concezione ideale, va spiegata col fatto che Dante, il quale teoreticamente almeno aveva saputo in parte liberarsi da' ceppi teologici o meglio teocratici, rimaneva pur sempre, scendendo nel campo piú pratico della storia, legato alla tradizione comune.

Riprendiamo ormai la rassegna degl' imperatori ed arriviamo cosi al primo imperatore medioevale, al restauratore della dignità imperiale in Occidente, Carlomagno. Egli è ricordato ultimo della serie degl' imperatori che ci sfilano innanzi nel VI canto del Paradiso, giacché con lui termina una fase nella storia dell'impero e ne incomincia una nuova.

1 V. CIPOLLA, p. 57, a proposito del passo già citato dell' Inf., II, 22-24.

E quando il dente longobardo morse La santa Chiesa, sotto alle sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

(vv. 94-96).1

Nella croce di Marte, tra i guerrieri della fede, risplende il suo spirito beato (Par., XVIII, 43), il che ci fa credere che Dante lo consideri soprattutto come difensore della Chiesa; nel de Monarchia si parla della sua incoronazione e della sua traslazione dell' impero dall' Oriente all'Occidente 2 avvenuta per mezzo

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dei pontefici. A proposito di quest' imperatore s'aggira una questione, non priva d'interesse, sollevata dal Davidsohn, il quale suppone che nel tanto discusso « cinquecento diece e cinque (Purg., XXXIII, 43) si celi Ludovico il Bavaro, e ciò facendo il seguente computo: Lo impero medioevale, quale l'intendeva il medio evo, incomincia coll' incoronazione di Carlomagno a Roma, dunque nel 800; aggiungiamo il 515 dantesco al 800 ed avremo il 1315, anno in cui fu incoronato il Bavaro.3 A questa congettura tanto attraente da essere accettata da molti, tra gli altri dal Parodi con qualche emendamento, si oppongono però in realtà molte difficoltà. La piú grave si è che il medioevo non vedeva punto nell' incoronazione di Carlomagno un rinnovamento, una resurrezione dell' impero, il quale nominalmente non aveva mai cessato d'esistere, ma soltanto una traslazione, un trasferimento della dignità imperiale dai monarchi bizantini ai re franchi. Dante lo dice chiaramente: << Carolus ab eo (Adrianus papa) recepit imperii dignitatem, non obstante quod Michael imperabat apud Costantinopolim » (De Mon., III, 10). Dunque nel tempo anteriore a questo fatto lo impero non aveva mai subito interruzioni, ma s'era trovato nelle mani degl' imperatori di Costantinopoli. L'incoronazione stessa veniva

1 Questo è l'ultimo fatto, per Dante, il quale ancora riveli l'alta virtú del sacrosanto segno dell'aquila. Poi incomincia la tetra e dolorosa storia per l'impero, le sue concessioni e le sue usurpazioni di fronte al papato, la confusione de' due poteri, insomma un periodo dal quale avrebbe potuto ben poco trarre a profitto della sua glorificazione imperiale.

3 Troviamo pure un accenno a Carlomagno nell' Inf., XXXI, 17.

3 Il Davidsohn ha fatto questa sua comunicazione nel Bullettino della società dantesca italiana, N. S., vol. IX, p. 129-131.

▲ V. La data della composizione ecc. in Studî romanzi, Roma, 1905, p. 31. Il Parodi accetta l'ingegnoso calcolo del Davidsohn, soltanto crede che nel DXV, si nasconda Arrigo VII, non già il

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ad essere, per le menti medioevali, né piú né meno di una traslazione qualsiasi, come quella anteriore di Costantino da Roma a Bisanzio o quella avvenuta più tardi per Ottone I. Poi, l'età medioevale non dava quel gran peso e quell' importanza, che risulterebbe dalla ingegnosa supposizione del Davidsohn, al rinascimento imperiale operato da Carlomagno, anzi, dopo il risorgere degli studi classici, si cercava quasi di dimenticare quell'avvenimento poco conforme alla continuità dell' impero. Il Cipolla (op. cit., p. 42) cita a proposito un passo di Bonizone, contemporaneo di Gregorio VII, il quale si esprimeva cosí : << Nunquam enim eum (Carlomagno) imperiali legimus auctum fuisse potestate ». Di piú, Dante medesimo si mostra poco esatto parlando di quest'avvenimento, come nota pure il Cipolla (op. cit., p. 77), confondendo il papa che chiamò in aiuto Carlomagno contro Desiderio, Adriano I, con quello che l'incoronò nell' 800, Leone III. Queste considerazioni unite, e meglio ancóra, il modo fuggitivo ed indifferente, col quale Dante parla nel de Monarchia di questo rinnovamento imperiale, ci rendono sempre più persuasi dell' impossibilità che Dante attribuisse tanta importanza a questo fatto da prenderlo come punto di partenza di una nuova èra nella storia dell' impero, da considerarlo senz'altro come il principio d'un nuovo e risorto impero. Infine, non tornerà inutile osservare che l'Alighieri, fedele a' suoi principi imperialisti, guardava quella data con occhio piuttosto mesto ed addolorato, pensando ch' essa significava un altro strappo all' indipendenza imperiale commesso dal papato, considerando ch'esso offriva un'arme ed un argomento di piú agli avversari dell' impero e della sua intangibilità.'

1 Sarebbe invece piú attraente la supposizione che Dante, seguendo le predizioni de' Gioachimiti, avesse preso l'800 come punto di partenza della quinta età dell'èra volgare, che, incominciando da Carlomagno, doveva durare circa 500 anni, cioè sino al tempo del nostro poeta. In questo modo il "cinquecento diece e cinque, verrebbe a dire che la fine della quinta ed il principio della sesta età dovevano avvenire nel 1315, anno in cui l'Alighieri poteva sperare il compimento dell'opera iniziata da Arrigo VII. Ma dato pure e concesso che il Purgatorio sia stato scritto prima della morte di Arrigo, non siamo davvero propensi ad ammettere nella Commedia una determinazione cronologica così precisa, che con facilità poteva essere smentita dai fatti. In ogni modo l'Alighieri avrebbe, in tal caso, ritoccato questo passo dopo l'infelice esito della spedizione del Lussemburghese. Cfr. lo studio acuto di D. GUERRI, Cinquecento diece e cinque, Giornale dantesco, vol. XV, p. 91.

Qui tratteremo subito del rinnovamento romano-germanico dell' impero operato da Ottone I' oppure, esprimendosi in modo conforme al medio evo, della prossima traslazione della dignità imperiale ai re della Magna. Di questo avvenimento di somma importanza che fissava stabilmente le sorti dell' impero romano in Germania e ne faceva arbitri i re tedeschi, Dante non si occupa mai. Si sarebbe quasi tentati di interpretare questo silenzio come rammarico e dolore pel trasferimento di questa potestà latina in mani tedesche; ma questa congettura, cosí lusinghiera per gl' Italiani, non regge di fronte alla critica obiettiva e spassionata. Piuttosto cercheremo le cause intime della presente omissione nel modo tutto speciale di considerare la storia dell' impero da parte dell'età media, la quale, come già sappiamo, non ammetteva interruzione e discontinuità nelle vi

cende della santa istituzione. All'Alighieri premeva soprattutto di dimostrare nel suo de Monarchia che il diritto del popolo romano alla dominazione universale era indiscutibile e ancor sempre vigente; che poi la dignità imperiale fosse trasferita ad altri, non lo preoccupava molto, poiché teoricamente il portatore di quella | potestà rimaneva sempre il popolo romano, ed il luogo dove si riceveva la corona imperiale, era sempre Roma. Perciò gli oppugnatori teoretici dell'impero, quando volevano combattere la legittimità degli imperatori del loro tempo, doveano incominciare ab ovo, cioè scalzare gli argomenti che dimostravano giusta la dominazione del popolo romano. Una volta ammesso il primato di Roma e del suo impero, ne derivava come naturale e logica conseguenza la legittimità d'ogni susseguente trasferimento o traslazione di quella dignità. Inoltre a Dante consigliava il silenzio sopra questo fatto la riflessione che anche la presente traslazione, come quella anteriore di Carlomagno, era conside

1 Dante cita una volta soltanto Ottone I (de Mon., III, 10) allo scopo di provare che la deposizione di papa Benedetto non infirma punto la teoria dell' indipendenza del papa dall'imperatore. Si potrebbe riguardare questo passo, che segue subito dopo quello sull' incoronazione di Carlomagno, come un indiretto accenno alla seconda traslazione. Chissà che il nostro poeta non abbia voluto con ciò prevenire coloro che cercavano di trarre anche da questa traslazione una nuova dimostrazione della dipendenza dello Stato dalla Chiesa, mettendo loro sotto gli occhi che, durante il regno di quell' imperatore, era anche avvenuto proprio il contrario, cioè un atto che si avrebbe potuto interpretare come se il papato fosse dipendente dall' impero.

rata, secondo la tradizione comune,' opera dei pontefici, la qual cosa si trovava in aperta opposizione co' suoi princípi politici della indipendenza dell' impero (De Mon., III).

Da Carlomagno in poi Dante sembra ignorare le fortunose vicende dell' impero; dobbiamo scendere fino all'età degli Svevi, a lui molto prossima, perché ne riparli diffusamente. Una non ben celata simpatia lo anima verso quella casa che, per l'ultima volta, strinse fortemente le redini sfuggenti dell' impero, cercò di risollevarne le sorti a novella grandezza. Specialmente la figura del primo Federigo, del « buon Barbarossa », gli apparisce in tutto il fulgore della terribile potestà imperiale, che punisce inesorabilmente i ribelli alle giuste leggi dell'impero. Rammenta ai Lombardi, recalcitranti alle giuste pretese di Arrigo VII, i fulmini del Barbarossa, la distruzione per opera sua di Spoleto e di Milano (Epist., VI, 5); di questo imperatore ancor oggi è viva la memoria << Di cui dolente ancor Milan ragiona» (Purg., XVIII, 120).

Quale concetto egli si fosse formato del << secondo Federigo », non è davvero facile stabilire. Lo danna all' Inferno tra gli eretici (Inf., X, 119), ma riconosce altamente i meriti di lui e de' suoi figli per la cultura e la poesia italiana; lo tiene in conto d'un «loico e cherico grande» (Conv., IV, 10); mette in bocca a Pier della Vigna le lodi del suo «signor, che fu d'onor si degno » (Inf., XIII, 75). Si direbbe che, nel giudicare quest' imperatore, pugnassero in Dante la tradizione popolare e le memorie guelfe contro le novelle convin

...

1 V. M. VILLANI, IV, cap. 72 cit. in GREGOROVIUS, vol. VI, p. 292 nota 1a "e questo medesimo popolo (romano) non da sé, ma la Chiesa per lui, in certo sussidio de' fedeli cristiani, concedette l'elezione degl' imperatori a sette principi della Magna,. Innocenzo III specialmente avea rafforzato l'idea che anche la seconda traslazione fosse opera esclusiva de' papi. Cosí si esprimeva parlando degli Elettori: "praesertim cum ad eos ius et potestas huiusmodi ab Apostolica Sede pervenerit, quae Romanorum imperium in persona magnifici Karoli e Graecis transtulit in Germanos, cit. in CIPOLLA, p. 14. Non si era certi quando fosse avvenuta questa seconda traslazione; l'opinione piú divulgata era quella che papa Gregorio V avesse rimesso nelle mani dei sette Elettori i diritti del popolo romano, v. SCADUTO, p. 56. Intorno alla traslazione fu discusso molto nel medio evo; ne sono fede i due trattati che prendono nome da questo fatto, il De Translatione imperii di Landolfo Colonna e quello omonimo di Marsilio da Padova.

2 Dante parla anche d'un "imperador Currado, (Par., XV, 139), il quale avrebbe fatto cavaliere il suo trisavolo Cacciaguida. Sotto quest' imperatore probabilmente si cela Corrado III di Hohenstaufen, ma pare

zioni ghibelline.' Federigo II è l'ultimo imperatore che meriti tal nome, (naturalmente Dante scriveva ciò avanti l'elezione d'Arrigo), giacché i suoi successori, «Ridolfo e Adolfo e Alberto sono indegni di tal titolo (Conv., IV, 3). Dopo di lui, anzi già con lui, incominciano a volgere giorni tristi per l'impero :

In sul paese ch'Adige e Po riga
Solea valore e cortesia trovarsi,
Prima che Federico avesse briga.
(Purg., XVI, 115-117).

La lotta tra Chiesa e Impero, risorta allora piú violenta che mai, ha ingenerato corruzione e confusione pel mondo, ha annientato la floridezza dell'impero e con esso l'«ultima possanza» (Par., XII, 120) di casa Sveva, Federigo II. Ben differente è l'attitudine di Dante di fronte ai successori di quest' imperatore, Ridolfo ed Alberto d'Absburgo, già suoi contemporanei. Essi, intesi completamente ad accumulare ricchezze e potenza nei paesi oltremontani, trascurarono il piú sacro dovere dell' imperatore, quello cioè di scendere in Italia a prendersi la corona imperiale, e ricondurre la pace e la giustizia nel « giardin dell'imperio», lacerato e sanguinante per le continue lotte intestine.

Ridolfo è posto nell'Antipurgatorio, tra le anime negligenti (VII, 91-96). Contro Alberto è diretta la bellissima invettiva del canto VI (97 e segg.) del Purgatorio, che tutti sanno a memoria.

Man mano che Dante s'avvicina al suo tempo, tutte le cose gli appariscono più avvolte in una luce tetra ed oscura, piú aumenta il suo pessimismo. La storia dell' impero, che nell'antichità gli si presentava in tutto lo splendore de' tempi augustei, segna posteriormente una parabola discendente. Alla tanto funesta donazione costantiniana seguono le altre usurpazioni fatte dai pontefici in danno dell' impero, le vicende delle due potestà s' intricano, si complicano, si confondono ognor piú, gli

sia avvenuta una confusione del terzo col secondo Corrado. V. su ciò CASINI, D. C., Commento, p. 687.

1 Parlando degl'ipocriti, il nostro poeta paragona le cappe di piombo, di cui vanno coperti que' peccatori, a quelle che Federigo JI faceva mettere ai rei di lesa maestà, credenza diffusa in quel tempo (Inf., XXIII, 66). Cosí egli ci dà indirettamente una prova della crudeltà di quell' imperatore. A proposito dell'idea che Dante si faceva di Federigo II cfr. BARTOLI, Storia ecc., vol. VI, parte 2a, pp. 36-38 e TOBLER, Dante u, vier deutsche Kaiser, Berlin, 1891, pp. 3-8.

* Cfr. TOBLER, op. cit., pp. 8-10.

uomini perdono il rispetto e la riverenza per le due somme guide; la cupidigia, l'odio, la discordia irrompono da ogni parte nel mondo. Eppure tutto l'animo suo si apre ancora ad una grande suprema speranza: veder ristabilita al mondo l'età d'oro della giustizia e della pace ch'egli avea sognata con la fervida fantasia del poeta, architettata con la sottile logica del filosofo scolastico. Ma purtroppo l'« alto Arrigo » passò via come un fantasma, incompreso o deriso dai più, e Dante vide dolorosamente dileguarsi la sua splendida utopia poetica nel lontano, nebbioso avvenire.

3). Rapporti della monarchia con il papato.

Ormai abbiamo visto di qual natura sia la monarchia ideale ed il monarca dantesco, ed abbiamo scorso la storia di quest' istituzione, secondo che l'Alighieri se la figurava attraverso ai secoli; non ci resta che studiare le relazioni ed i rapporti con l'altra non meno, anzi piú importante istituzione universale del medio evo, il papato.

Dante è cattolico ortodosso, e nessuno potrà mai in buona fede metterne in dubbio la sincerità oppure accusarlo di non aver accettato incondizionatamente i dogmi. Egli proclama altamente in tutte le opere la sua ortodossia, si scaglia anche nel filosofico Convivio contro gli scettici e gl' increduli: « oh istoltissime e vilissime bestiuole che a guisa d'uomini pascete, che presumėte contro a no

1 Non provo davvero la tentazione di ripetere per la terza volta (v. piú sopra) la trita storia di Arrigo VII e dell'influsso ch'egli esercitò sull' Alighieri. Quest'è l'ultimo imperatore di cui ci parli il nostro poeta; posteriormente l'oblio sembra coprire per lui la storia imperiale. Forse nel de Mon. (III, 15) “parlando delle divergenze che possono eventualmente sorgere nel collegio degli Elettori, allude casualmente alla doppia elezione di Ludovico il Bavaro e Federico il Bello, ma non possiamo dirlo con sicurezza, perchè di doppie elezioni imperiali non ci mancano esempi nei tempi anteriori e perché, avendo egli foggiato i suoi Elettori sul collegio dei Cardinali, gli può essere balenato alla mente il non raro caso di discordia in seno al collegio de' Cardinali stessi.

2 Tutti conoscono le cervellotiche e balzane fantasticherie del Rossetti, dell'Aroux ecc., secondo le quali Dante sarebbe stato un protestante, un rivoluzionario e nientemeno che un socialista bello e buono. Cfr. a proposito KRAUS, pp. 700-705.

3 L'opinione del Witte, e, un tempo, anche dello Scartazzini che il Convivio rappresentasse un periodo di scetticismo e di deviazione dalla fede nella vita di Dante, è oggi una fase oltrepassata della critica dantesca.

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