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La nostra fede è candida, è intera, ma la tua? . . . Son tre auni, che promettesti, e noi non possiamo ancora ringraziarti, ma dobbiamo ancora cullarci con le speranze. Chi ben guardi il colorito di questi versi, che furon gli ultimi di soggetto pubblico, vi è un tono di scoramento, e di passione, rimessa sì, ma talmente addolorata, che ben ti mostra come sofferente fosse l'animo del vecchio nell'amore insoddisfatto del suo caro paese. La baldanza di quello stile, che fino al Ritorno d'Astrea ebbe tuonato con l'impeto dell' Aristodemo e dell' Iliade, nell' Invito a Pallade s'è cangiata in tenerezza ed umiltà di preghiera. La quale se può essere dagli altri notata di viltà, io domando: Qual pro alla republica la morte di Catone? Io non voglio giudicare di quell'antico; del Foscolo ho già detto e ripeto, che fra lui e il tiranno non v'era possibilità di patti onorati. Ma posso ben dire in generale che i Catoni son belli come tipi, sarebbero utili soltanto quando la maggior parte degli uomini fosse come loro, e non sarebbero vittime quanto vane al popolo, altrettanto gradite alla tirannide. Ma poichè saranno sempre un'eccezione del genere umano, ad altro fine non aggiungono che a farsi ammirare; e spesso è anche vero, che siffattamente operando hanno dato un addio al vantaggio della patria, curando quello di mantenere e ingrandire la fama del proprio individuo: laddove la vera abnegazione sublime del cittadino è quella di afferrar tutte le occasioni di fare un po' di bene al proprio paese, scordando sè stesso interamente. È bello scagliarsi a morire per la patria; ma quando non c'è occasione di farlo con l'utile suo, è dovere di cittadino il giovarla come i tempi concedono, e le forze della propria natura. Nè co' pensieri miei soli, in questi tempi d'ampollosa ed inefficace, o malferma e sempre dubbia virtù, io m'arrischio a parlare, ma con quei di Plutarco e di Tacito; ai quali uomini e maestri non sono certamente assai de'nostri moderni che possano insegnare virtù cittadina, e molto meno che per esercizio della medesima possano entrare innanzi d'un passo. E poichè troppi sarebbero i luoghi, massime degli Ammaestramenti civili, con che il moralista di Cheronea potrebbe venirmi in sussidio, io mi tengo al ripetere soltanto le parole del grande Latino: Sciant quibus moris inlicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta, sed in nullum reipublicæ usum, ambitiosa morte inclaruerunt. (Agric. XLII).

Ora, mentre una generazione d' uomini assai diversa da

quella che richiedono le presenti necessità, va rubacchiando o sfruttando all'Italia i benefici dell'epoca, e il prezzo dei passati dolori; mentre sotto nome di patria si cela più che mai o l'avarizia o l'ambizione e sempre l'amore di sè, in tanta sonorità vacua di parole, e diffalta d'opere e di propositi, se principalmente utile potrebbe tornare l'esempio dei più grandi cittadini politici e guerrieri e via discorrendo; non per questo è da biasimare o da sospettare pernicioso all'Italia il ristorare la fama indegnamente lacerata di un grande artista, che fu onesto cittadino, che amò ardentemente la giustizia, e la predicò sempre, che sostenne carichi pubblici con integrità, fece guerra ai ladri, e visse e mori povero. Anzi massimamente oggidì può tornar utile, quando queste umili ma fondamentali virtù fanno difetto all'Italia, e vi regna tuttavia quello spirito di rabbiosa maldicenza e calunnia, che fece strazio del Monti, ed oggi piglia più alimento dalla general miseria morale che vi si patisce, e per cui quasi a ragione siamo increduli d'ogni bontà che recasse eccezione. Nondimeno pensino gl'Italiani di buona fede, che i veri grandi, contemporanei o di poco successivi al Monti, e dai quali dovrebbe informarsi più che dalla piazza e dai trivî l'opinione di quel popolo che non è volgo, pensi che tutti portarono di lui quel giudizio che m'è piaciuto difendere. Ei fu, quali debbon essere i poeti, sacerdote del giusto e del vero. Non ebbe parte, perchè la sua fu quella della giustizia.

L'Apologia che da ultimo ne ha fatta un pronipote non è baldanzosa, anche nel raro sdegno è gentile; più che l'armi d'una dialettica stringente, ha voluto usare semplicità di narrazione e calore d'elogio amoroso. Egli non propone a modello d'uomo politico l'avo illustre, ma lo designa alla giusta benevolenza ed all'ammirazione degli onesti, siccome onesto cittadino e scrittore grande e potente, a cui per essere grande in tutto il resto nocque la soverchia fantasia con la timidità conseguente dell'animo. Quest' Apologia è un libro bene scritto, buono, morale, coscienzioso, e però di quelli che sono utili sempre, e dalla cui lettura si riesce consolati e migliorati

nel cuore.

FERDINANDO SANTINI

DI ROMA, DEL TEVERE E DELLE INONDAZIONI

Per l'Architetto EFISIO LUIGI TOCCO

Non credo savio consiglio in coloro che, senza esitanza, gli antichissimi Romani e le Italiane genti ignoranti e che a tentoni menassero loro vita suppongono, quasi mancassero di perfetta ragione, e per niente maturassero e sottoponessero a critica le loro operazioni. Costoro mostrano di negare la molta saviezza colla quale gli antichi regolassero la loro vita politica, e quale industria ed arti finissime adoperassero in tutto che concerne la vita domestica. Preteriscono il commercio, e l'ardire di quei sommi uomini che invasero tutto il mondo possibilmente a loro accessibile, tanto per terra quanto per mare; e che finalmente se ne resero padroni colla virtù e colle armi: cosa non concessa ad alcun popolo, se ai vinti non sia superiore in civiltà e coltura. Finalmente costoro misconoscono il gran bene generosamente apportato ai popoli vinti colle scienze, colle arti e coll' industria. E pur non ostante certe infondate critiche, e tutta la miscredenza, bisogna riconoscere le maravigliose gigantesche opere di arti eseguite dapertutto, delle quali senza allontanarmi dalla nostra Penisola, invito ad esaminare le opere idrauliche da Etruschi e da Romani operatevi. Di queste e di moltissime altre fatte dai nostri maggiori, che onorano l'umano intelletto, ne potrebbero esser colmi ben vasti volumi.

Molti dotti illusi, non so se da amor proprio, o da sistematica opposizione circa le prime storie di Roma e del territorio limitrofo che alle origini romane s'appartiene, sminuzzando fatti e circostanze, hanno voluto avvelenare le memorie tramandateci, con dubbi creati più ad arte che con realtà di fatti.

Certamente nelle antiche storie che alle origini di Roma s'appartengono, e nelle stesse dei primi tre secoli di questa città, vi ha una confusione di sacro e di profano, d'idee, fatti, e portenti, e nomi; cose che come ben si capisce stavano in racconti popolari, e per conseguenza sfigurate dal capriccio o circa gli enti, o circa le circostanze.

Ma in mezzo a tutto ciò bisognerà pur convenire che le memorie che ci sono state trasmesse, in mezzo alla loro discordanza, tutte si convengono in un solo punto quasi centro, qual è di mostrarci un popolo maravigliosamente grande, operatore instancabile pel suo benessere, e per la sua gloria.

E se noi vediamo questo popolo sempre eguale operatore nei secoli posteriori alle sue origini ed ai suoi primi tre secoli; quale potrà essere la difficoltà in ammettere per vera la sostanza di una storia, benchè copiata da racconti popolari come si vuole? Ma come mai questo popolo romano col suo valore, industria, e costanza, avrebbe potuto rendersi vittorioso su d'un popolo potente in terra ed in mare, agguerrito e civile, quale fu il Cartaginese, senza prima essere andato gradatamente di vittoria in vittoria, di virtù in virtù, ciò che costituisce tutta l'orditura dei primordi della storia romana ?

Gli antichi, industriosi per sè, generosi pel rimanente degli uomini, saggiamente ogni cosa operarono; e tra le savie opere Cicerone annovera la scelta della situazione di Roma: di questa Roma che con prudenza fu inalzata sui colli, benchè poi per forza di fatti politici dovette estendersi per le basse vallate intermedie.

Ben sapevano i Romani a quanto caro prezzo si rendessero utili alla città i terreni depressi e paludosi, soggetti alle inondazioni del Tevere; perciò giammai abitarono il Campo Marzio, nè le limitrofe pianure di continuo soggette a terribili inondazioni.

Gli antichi Romani dunque abitavano una città non sottoposta alle inondazioni del fiume, meno che nelle parti più depresse, che noi ora possiamo determinarle nella Valle Murcia, nel Velabro, Foro Romano, Foro di Cesare e Foro di Augusto con le basse loro adiacenze.

Allorchè il popolo romano decaduto, come ogni cosa mortale deve cadere, si trovò ridotto a ben miserabile condizione numerica e civile, allora si conceutrò tra le falde dell'Aventino, quelle del Celio, col Celio stesso, occupando tutta la vallata da s. Gregorio a porta s. Sebastiano. In questi luoghi stanziava il popolo romano nell'infausto tempo della venuta del Normanno Roberto Guiscardo; allorchè per liberare un Pontefice che i Romani stringevano di assedio nella Rocca di Mole Adriana, i partigiani papali con pia carità cristiana incendiarono tutte quelle parti, perchè il popolo occupato in salvare le famiglie e le masserizie non avesse nè tempo nè agio di opporsi al caritatevole Normanno.

Solamente dopo questa terribile catastrofe inflittagli da un Pontefice e da un barbaro, il misero popolo si rivolse al Campo Marzio, spintovi dal bisogno generatogli, per mancanza degli acquedotti, di procurarsi acqua potabile dal prossimo Tevere, e dalla durata affluenza, benchè esile dell'acqua Vergine.

Abborrendo dunque le arsiccie case e le domestiche ceneri, improvidamente si portò ad abitare le vicinanze del Tevere, e la ragione di tale trasferimento può trovare scusa solamente nella ignoranza e nella miseria di quei tempi. Il popolo per questo fatto di assicurarsi l'acqua potabile ha dovuto sopportare gravissime afflizioni dalle acque dello stesso Tevere: punizione non estinta, e che con maggiore o minore rovina ogni generazione è costretta a sopportare.

Quanto è stato detto finora, l'ho creduto espediente a giusto ragionamento per coloro che vagheggiano una grande aggiunta alla città in quasi tutto lo spazio dei Prati, spazio conosciuto dagli antichi col nome di Campo Vaticano. E la presente inondazione, che tanto sciaguratamente ha chiuso l'anno 1870, mi sembra sia giunta a proposito, come dimostrazione delle vane pretese di potervi avere una parte di città illesa ed immune dalle esuberanti acque del Tevere.

Ne si oppone alla volontà dei progettanti il pericolo delle inondazioni. Un rialzamcato di terreno, dicono essi, ci metterà al coperto di simili pericoli.

Un rialzamento di terreno che escluda le acque esuberanti oltre alla capacità dell'alveo del Tevere, suppone anzitutto la conoscenza di un punto fisso e determinato oltre al quale mai non giungano le alluvioni; e questo dato noi non l'abbiamo. Voglio ammettere per un momento il voluto rialzamento di suolo; ed in questo caso le acque per tale effetto scacciate dalla riva destra, tutte si riverserebbero sulla riva sinistra dove siede tutta la città attuale. Sarebbe la vera fayola della Fenice che distrugge sè stessa per dar vita alla prole. Ovvero che per liberare la Roma attuale dalle alluvioni, prodotte da riversamenti o no, si volesse sollevare il terreno della città; anche in questo caso credo opera non bene maturata, mancando noi, come già ho detto, della conoscenza di un determinato punto oltre al quale non sia lecito s'inalzino le esuberanti acque del Tevere; e qualora si giungesse a conoscere questa incognita, avremmo una Roma immersa nella terra, facendo capolino dalla sua sepoltura. Nè per ora voglio aggiungere la enorme spesa dei compensi che giustamente verrebbero reclamati dai proprietari dei fondi dimidiati.

Nei tempi imperiali, allorchè il Campo Marzio non fu più campagna destinata a solo esercizio e sollazzo del popolo, ma tutto occupato da Teatri, Anfiteatri, Terme, Fori, grandiosi Sepolcri e Templi, con infiniti altri ornamenti ed opere pubbliche, i Romani sperimentarono tutta la gravità del male a cui

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