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Pasquier leggesi un interessante racconto di questo luttuoso avvenimento.

Nel giorno 18 di maggio egli aprì nel Collegio di Francia il corso di lezioni che già da tre anni continuava con tanto successo intorno alla storia delle scienze naturali. Coloro che furono presenti all'ultima lezione di questo sommo precettore, ne ricevettero una impressione che non può trasfondersi in quelli che non ebbero questa sorte, e di cui non posso offrire che una languida nozione. Rare volte erasi egli innalzato a tanta sublimità; ma i suoi uditori rimasero principalmente colpiti dalle ultime frasi che adoperò per significare l'intento suo di presentare un prospetto dell'attual condizione dello studio del creato quello studio sublime che, mentre illumina e rinforza l'umano intelletto, dovrebbe preservarlo dall' ingannevole abitudine di considerar le cose segregate dalle reciproche loro relazioni, e di contorcerle a fine di soggiogarle alle leggi di un sistema, che dovrebbe insomma indirizzare incessantemente i pensieri alla Suprema Intelligenza, la quale tutto governa, vivifica e rischiara la quale rivela tutte le cose, e da tutte le cose è rivelata.

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<< In questa parte della lezione egli spiegò una calma e giustezza di percezione unita a tanta profondità e gravità di pensieri, che richiamò la mente degli uditori a quel libro il quale parla della creazione a tutta l'umana specie. Era questo un risultamento piuttosto dei pensieri che delle parole di lui, imperocchè in ogni cosa ch' egli andava liberamente sponendo respirava il sentimento dell'onnipotenza di una suprema causa e di una sapienza infinita. Sembrava quasi ch' egli dall'esame del mondo visibile fosse condotto nel recinto di quello che è invisibile, e l'esame della creatura evocava il Creatore. Finalmente gli uscirono dal labbro queste parole, nelle quali era facile lo scorgere un presentimento.

Tali, o signori, saranno gli oggetti delle nostre investigazioni, se il tempo, le mie forze e lo stato della mia salute mi permetteranno di continuarle e di condurle al loro compimento ». L'ultima scena della vita del signor Cuvier, come pubblico precettore, mi sembra improntata di una singolar bellezza. Chi mai avrebbe potuto sentire, senza una profonda commozione, gli estremi accenti di una così limpida intelligenza, sgombri dalla vanità e dall'amor proprio dei sistemi? Chi mai avrebbe potuto rimaner freddo ed insensibile dinanzi l'ultimo sguardo che gettava sul creato colui

che ne avea rivelati tanti misteri ? Chi avrebbe potuto resistere al sentimento che eccitava l'aspetto della scienza in atto di rivelare l'eterna sapienza? Quanta nobiltà! Quanto affetto! Quanto spirito profetico in quella rivelazione! Così vicino a comparire al cospetto del Supremo Giudice, quali parole avrebb' egli potuto profferire che fossero più convenienti a prepararlo al gran passo? Dopo questa lezione comparvero i primi sintomi del male che in meno di otto giorni lo trasse alla tomba. Egli nulladimeno presiedette, nel giorno susseguente, al Comitato dell'Interno. Ma ben tosto una paralisi di una specie singolare distrusse gradatamente i nervi che producono i movimenti volontarj, lasciando inoffesi quelli ov' è riposta la sede della sensazione; le membra attaccate divenner per tal guisa compiutamente inerti, quantunque conservassero la sensibilità. Il signor Cuvier poco tempo innanzi aveva letto nell' Accademia delle Scienze una Memoria inviatagli da un anatomico italiano intorno all'esistenza di questa poco conosciuta affezione del sistema nervoso. È da supporsi che le soverchie fatiche da lui sostenute negli ultimi anni del viver suo abbiano con'tribuito a generarla. Tutti i sussidj prodigatigli dai medici più distinti riuscirono inefficaci, e tosto fu conosciuto che il suo fine s' andava approssimando.

A tutti è noto con qual coraggio e con qual serenità abbia egli sostenuto l'aspetto della vicina morte. Le cure incessanti che gli furono compartite gli recarono profonda commozione, ma non valsero a rallentare la sua fermezza. Fino all'ultimo egli permise a coloro che gli erano stati famigliari di avvicinarlo, e per questa concessione io fui testimonio degli estremi suoi momenti. Quattro ore prima della sua morte io mi trovava in quel memorabile gabinetto ov' egli aveva passato le più felici ore della vita, ed ove io lo vidi circondato di tanti omaggi, ed esultante dei ben meritati successi; ei medesimo propose che ve lo trasportassero, mostrando brama di esalar colà il suo ultimo sospiro. L'aspetto di lui s' offeriva in uno stato di perfetta calma, e le sue nobili sembianze non mi sembrarono mai tanto belle e tanto degne di ammirazione come in quel punto. Non ancora vi appariva alcuna alterazione di troppo sensibile o dolorosa natura solo rimarcavasi una lieve debolezza e qualche difficoltà nel sostenersi.

Io strinsi la mano ch'egli mi aveva stesa, mentre profferiva con una voce appena articolata : Voi vedete qual differenza passi

fra l'uomo di martedì (noi ci eravamo abboccati in quel giorno) e l'uomo di domenica, e tante cose rimanevano a farsi! Tre opere importanti che dovevano esser pubblicate, delle quali ho di già preparati i materiali, nè altro mi rimane che di scriverle ». Io mi sforzai di trovar qualche parola onde esprimergli l'interesse che in tutti aveva destato. « Amo di crederlo, egli mi rispose, da gran tempo ho procurato di rendermene degno ».

Gli ultimi pensieri di lui furono volti al futuro ed alla gloria

al nobile desiderio dell' immortalità. Egli cessò di vivere nel giorno tredici di maggio, alle ore nove della sera, nell'età di soli sessantadue anni, quantunque appartenesse ad una famiglia distinta per longevità.

Cuvier fu sepolto, secondo il suo desiderio, nel cimitero del padre La-Chaise, sotto la pietra che copriva le ossa della figlia sua. Alla cerimonia funebre intervennero persone d'ogni ceto e d'ogni opinione, le quali anche tra il furiare di un terribile contagio furono sollecite di offrire alla tomba di lui l'ultimo tributo di ouore e di ammirazione. Ma non furono i soli compagni delle sue fatiche e della sua gloria che gli porgessero questo tributo di affetto e di cordoglio.

In ogni angolo della sua terra nativa, feconda di dovizie intellettuali, e risplendente d'immortali nomi, la perdita del loro naturalista, del loro legislatore, del loro maestro fu considerata come una pubblica calamità. I più remoti recessi del mondo incivilito fecero eco a questo generale lamento, e fin nel tempio della scienza fu sentito essere in lui spento un sommo sacerdote. (Fine del primo articolo.)

VER. DI G. S.

INDIC., EC. SERIE SESTA. T. I..

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Rivista Critica,

VOCABOLARIO

UNIVERSALE ITALIANO

Compilato a cura della Società Cramater e Comp. (1)

Se il rilevare le mende d' un' opera insigne dà fama d'illuminato critico a chi si presenta al pubblico sotto l'egida d'un nome già chiaro e riverito, chi senza altra guarentigia che quella sere sancito dall'autorità de' dotti e del tempo, non piccola parte rappresenta della gloria nazionale, può ascriversi a gran ventura se altro ne raccoglie che odj e contumelie. E sia! Le botte saranno mie se qualcuno non isdegnerà discendere fino a me; generale il vantaggio se le mie daran qualche frutto; ed io avrò sempre fatto il mio debito, chè in letteratura come in morale il concorrere allo scopo comune è un sacro dovere, più sacro ancora per gli Italiani ove ne vada l' interesse e l'onore della loro lingua. E però preferendo il rischio d'essere mal interpretato al comodo ma dappoco partito di un ignavo silenzio, mi farò brevemente a toccare senza riguardi di quelle cose che nel rovistare senza piano nei due primi tomi del succitato Vocabolario mi parvero meritevoli di censura.

Fin dalla prima occhiata che diedi al Vocabolario m'era oc

(1) In Napoli dai torchi del Tramater, 1829 e seguenti. (È in corso il V volume.)

corso di ravvisarvi qua e là varj errori di stampa, quasi inevitabili a dir vero in opera di tanta mole, ma pur sempre pregiudizievoli in un libro di tal genere; qualche inesattezza, qualche inconseguenza. Così, per esempio, acciocchè non paja ch'io mi faccia accusatore senza addurre una sola prova, la parola Demanio, che e pei natali e pel lungo uso merita ed ha di fatto la cittadinanza italiana, non è registrata nel Vocabolario, mentre poi fra i varj significati di Dominio vi si dà, sotto quest' ultima voce al § 3, quella di Demanio o regio patrimonio. Degli errori di stampa citerò solo fra i molti quello che incorse alla voce donno nel verso citato per esempio: « Come poss'io ciò far, dolce mio danno?» il quale per poco non si prende per un giuoco avvertito di parole. Ma queste e simili coserelle non m'avrebbero mai indotto ad aggiungere un articolo a quello onde l' egregio C. Cantù illustrò quest' argomento nei fascicoli del Ricoglitore di marzo, aprile e maggio dell' anno ora finito, se altre e più gravi mende non presentasse il Vocabolario in due parti della maggior importanza, le definizioni e le etimologie. Ne domando perdono ai dotti e benemeriti compilatori del Vocabolario: ma più rileggo le noterelle che son venuto facendo in percorrerlo, e men mi pare che le obbiezioni contenutevi debban dirsi prive d' ogni fondamento.

Delle definizioni, non voglio dir moltissime, ma sicuramente molte peccano per eccesso o per difetto: alcune non danno chiaramente l'idea da definirsi; altre, sebben poche, ne danno una falsa; in più d'una si desidererebbe maggior proprietà di lingua. Giudichi il lettore della verità dell'asserzione dal seguente saggio. ALBA. Quel chiarore che appare tra il matutino (dovrebbe dire mattutino) ed il levar del sole.

Chiarore essendo spiegato dal Vocabolario (Vedi Chiarore) per splendore, come potrà chi legge, rilevare da questa definizione la differenza tra l'alba e l'aurora, cui il Vocabolario definisce: splendore il quale si vede avanti che il sole esca dall' orizzonte? Perchè non s'è toccato nelle due definizioni il color bianco dell'una e d'oro dell'altra che ne forma il carattere, e che risultava spontaneo dall' etimologia delle due parole?

ARCHIBUGIO. Strumento da ferire simile all'artiglieria, ma di ferro, e maneggiabile da un uomo solo.

Dopo ciò che il Vocabolario stesso dice all' articolo Artiglie ria, che per questa s'intende ora la milizia o l'arte dei cannonieri e bombardieri, parmi che la definizione non avrebbe dovuto appoggiarsi ad un vocabolo, il cui ambiguo significato può per lo meno generare oscurità.

ARMATA. Moltitudine di navigli da guerra. Oggidì vi si pone I aggiunto navale, e generalmente dicesi Flotta.

Se il concetto rappresentato dalla voce armata, ad onta della generalità dell'idea che ne forma la radice, è ristretto ad una moltitudine di navigli, sarebbe superfluo, anzi vizioso, d'apporvi l'aggiunto di navale. Se dunque lo si fa, bisogna pure che que

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