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io sono già al termine del sabbione, cioè del compito da loro assegnatomi; e chiedendo ad ambedue loro che ogni mio fallo mi sia perdonato, io dò luogo con Ser Brunetto; il qual veggendo nuovo fummo surgere del sabbione ed era gente di altra fazione dalla sua che veniva, e colla quale egli non dovea essere ), tagliò il suo venirne con Dante ed il ragionare: Di più direi; ma 'l venir el sermone Più lungo esser non può, però ch' io veggio Là surger novo fummo del sabbione. Gente vien, con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro, Nel qual io vivo ancora, e più non cheggio. Nobil parlare poetico! Nel qual io vivo ancora!

ZEV. Dice vero; da che per le nobili e belle seritture, l' uom sopravvive dopo la morte sua; Per quae spiritus et vita bonis redit Post mortem, ec.

TOREL. E potrebbesi aggiugnere; Non omnis moriar, multaque pars mei Vitabit Libitinam. Io porrò il sigillo a questo Canto: Poi si partì; e parve di colora Che corrono a Verona il drappo verde Per la campagna; e parve di costoro Quegli che vince, non colui che per de. Piacemi qui notare un modo che qui adopera Dante: Egli dice; che Brunetto si dileguò da lui si ratto, che parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde. Ora da alcun fu osservato, ingannarsi il Menzini, il qual dice; Essere di nostra lingua il sopprimere nel verbo correre il segno del terzo caso, usando il quarto con solo suo articolo; e doversi dire, correre il palio, la giostra, ec. non al palio, ec. Vorrei sapere quello che a voi ne paja, Filippo mio.

ROSA M. Ella mi tenta, Signor Giuseppe, a voler udire da me quello che sa ella medesima troppo meglio. Sapeva io bene essere stata fatta questa chiosa, ed anche da chi; che è quel medesimo, il quale fece la nota al dolce fico, che di sopra allegai; e so altresì che egli dice appunto queste parole; cioè, ingannarsi il Menzini giudicando secondo la lettera, e non secondo ragione; che vuole, che ogni relazione sia indicata dal segno relativo. Or questo autore (il qual però, senza la stima altissima che ha di Dante, mostra anche nel comento che fa a questo poeta, non piccolo intendimento) s'è incapato di volere spiegar i modi della lingua secondo ragione, e non secondo la lettera; quando ( giudice il Salviati, e la ragione medesima delle lingue) è da tenere la via contraria. conciossiachè la ragion delle lingue sia l'uso de' Classici, e nulla più: ed i sommi in quest'arte insegnarono, che certi costrutti i quali mostrano uscir di grammatica, voglionsi intendere per discrezione e questo correre ne è uno. E non fa luogo ricorrere all' ellissi, come fa sempre l'autor suddetto : ma è da dire ; Questo è modo proprio e natio della lingua; e non voler vedere più là. Quanti modi latini potrei io squadernargli, che escon di ogni regola! e nondimeno chi li corregge? Ma quanto a questo correre, che dirà esso autore di questa maniera, correre una cosa, adoperata per rubarla correndo? pure non è da toccarla, non che sia da farvi sopra alcuna chiosa e mutarla.

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TOREL. Non più, Filippo mio: vostra è la ragio

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ne, ed io era altresì del medesimo sentimento; e basti. Intanto noi vi rendiamo un milion di grazie della fatica fin qui durata alle nostre cagioni, che di tante belle e dotte notizie ne ricreaste. E posciachè quest' ultima parte del Canto di Dante condusse il ragionar nostro di là non poco dalla consueta misura; e noi di tratto vi porrem fine, riserbando a domani ( se non vi dispia ce) il continuar il nostro lavoro.

Zɛv. Anzi egli mi piace e piacerà sempremai; e questa notte, che dee correre di mezzo, mi vorrà parere delle più grandi.

ROSA M. Il medesimo ne credo altresì io di me: e farò assai, se al più mezza la potrò ben dormire.

E con queste parole l'uno dall' altro si furono accommiatati.

Fine del Dialogo Quinto.

DIALOGO SESTO

Posciachè l'uomo non può, almen lungamente, reggere alle fatiche, senza le quali generalmente non può stare la vita ( e quelli che fanno nulla, hanno veramente maggior faccenda degli altri, per la molestia che dà il medesimo non occuparsi a cosa del mondo ); egli è al tutto necessario, che egli si procacci a quando a quando ricreamenti e sollazzi; ne' quali come arco stato lungamente teso, allentando il rigore delle durate fatiche, con quel ricreamento rinfranchi e rimetta in tempera le sue facoltà infievolite, e così al loro esercizio più vigoroso e valente si riconduca. Ora tra i molti modi che o gli presta la natura, o può esso medesimo procacciarsi, il più appropriato alla altissima sua natura ed il più atto a dilettarlo, parmi essere quello delle umane lettere; nelle quali quella parte che in lui è più nobile e prima, trova una ricreazione a sè convenientissima, e però di tutte soavissima e più dilettosa; perocchè esse hanno di lor natura quasi il fiore del bello, e la quintessenza di tutta la possibile gentilezza. Or questa guisa di sollazzo ben veggo io, non essere da potersela prender tutti; da che per bene assaporarlo, è mestieri aver l'animo per lungo studio eser

citato ed impratichito di quelle alte e più che mortali bellezze: il che di tutti, anzi de' più non è, nè può esscre. E pertanto almeno coloro dovrebbono collo studio apparecchiar l'animo a poter ricevere siffatti piaceri, i quali a ciò hanno tutto l'agio, e la via piana ed aperta; in quanto che abbondando delle temporali fortune, sono fuor del bisogno di logorar il corpo e lo spirito ne' travagliosi esercizi per guadagnare la vita; e però, nè libri mancano loro, nè tempo e comodità da esercitarsi in così fatti studj; e per la nobiltà della loro origine, sogliono aver animo degli altri più nobile, e mente meglio fatta alle elevate speculazioni. Ma la sperienza troppo dimostra, la cosa ne' più di loro fallire: perocchè le comodità e gli agi che egli hanno, siccome è detto, grandissimi, li tirano a studiar pure il corpo, e ad attuffarsi ne' suoi diletti, lasciando colla nobiltà del sangue in una bassa e ignobile ignoranza altresì l'animo arrugginire. Ma lasciam questo; e pensiamo, che se non molti, alcuni ci furono però sempre e sono ( massimamente in Verona) di quelli, che a questo bellissimo studio delle lettere attesero exproposito di che poterono gustar la secreta dolcezza, la quale a' diligenti ricercatori di lei ( quasi dopo levatane con molta fatica la dura scorza) si lascia finalmente provare. Di questi furono i tre, che io ho introdotti a far questi Dialoghi sopra le bellezze di Dante: i quali, come quelli che erano gran letterati, nel cercar di quelle bellezze così dolce e squisito piacer trovarono, che a gran fatica e non senza dolore da quel sollazzo si lasciavano dipartire.

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