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Diogenes, Anassagora, e Tale, Empedocles, Eraclito, e Zenone: E vidi'l buono accoglitor del quale, Dioscoride dico; e vidi Orfeo, Tullio, e Livio, e Seneca morale, Euclide geometra, e Tolommeo,

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137 Diogenes o Diogene, Cinico, da Sinope, filosofo amatore della povertà e del disagio, e rigoroso riprensore degli altrui difetti. VOLPI. - Anassagora, Clazomenio, filosofo dogmatico antichissimo ed eccellente. VOLPI. Tale o Talete, Milesio, uno de'sette Savj della Grecia. VOLPI.

138 Empedocles o Empedocle, filosofo d'Agrigento, città di Sicilia, il quale compose un bellissimo poema, della natura delle cose; in che fu poi da Lucrezio, poeta latino, imitato. VOLPI. -Eraclito, d'Efeso, filosofo antichissimo, i cui scritti intorno alla natura delle cose erano ripieni di oscurità. VOLPI. -Zenone, Cittico, cioè da Cittico, antica città di Cipro, principe degli Stoici. Fu un altro Zenone, detto Eleate, dalla sua patria, dialettico acutissimo. VOLPI.

139 140'l buono accoglitor, l'eccellente raccoglitore e scrittore;-del quale, il concreto per l'astratto, per della qualità, della virtù cioè dell'erbe, delle piante e delle pietre e de'vcleni e loro rimedj ; delle quali cose scrisse Dioscoride d'Anazarba nella Cilicia.- Orfeo, nativo di Tracia, figliuolo d'Eagro e della musa Calliope. Fingono i poeti che costui usasse tanta maestria nel sonar la cetra, che i più fieri animali e gli alberi stessi concorressero ad udirlo. VOLPI.

141 Tullio, Cicerone.-Livio, legge la Nidobeat., invece di Lino, che leggono tutte l'altre ediz.; e Livio istoriografo romano, ripete nella Nidobeatina anche il comento. Ed ecco tolto così il congiungimento di cose disparate imputato a Dante in questo passo: Guarderaiti, dice il Casa nel Galateo, di non congiunger le cose difformi tra sè, come:

Tullio, e Lino, e Seneca morale.

Seneca morale, fu Spagnuolo, e maestro di Nerone, da questi poscia fatto ammazzare. VOLPI. →→ Lino ha l'Antald., e Alino legge l'Ang. E. R. e il Vat. 3199. ←

142 Euclide, il celebre autore degli elementi geometrici.

Ippocrate, Avicenna, e Galieno, Averrois, che'l gran comento feo. Io non posso ritrar di tutti appieno, Perocchè sì mi caccia 'l lungo tema,

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Che molte volte al fatto il dir vien meno.

La sesta compagnia in duo si sceina:

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- Tolommeo Claudio, l'astronomo e geografo, autore dell'in addietro comunemente ammesso mondiale sistema, detto Tolommaico.

143 Ippocrate, medico greco antichissimo ed eccellente, nato nell'isola di Coo, della razza d'Esculapio. VOLPI.—Avicenna, Arabo, medico eccellente. Fiori circa gli anni di nostra salute 1040. VOLPI.-Galieno appella Galeno, il famoso medico pergameno, o per uso di parlare (appellandolo istessamente anche nel Convito) [a], o per epentesi in grazia del

metro.

144. Averrois o Averroe, Arabo, gran Comentatore d'Aristotile, ma empio nelle sue opinioni. VOLPI. feo per fe', ad ischivare l'accento e fare la rima l'adoprò, tra gli altri, anche il Casa, son 35.:

Per cui la Grecia armossi, e guerra feo [b]. 145 ritrar, ponesi qui metaforicamente per descrivere, per riferire.

146 mi caccia, mi spinge, mi dà fretta; -'l lungo tema, la vasta materia del mio assunto. » simmi stringe ha il cod. Vat. 3199.

147 al fatto il dir vien meno, non può il dire stendersi a tutto l'accaduto.

148 sesta compagnia, per compagnia senaria, di sei.-in due si scema, ellissi, invece di dire, in due parti dividendosi si scema, si spicciolisce, rendesi di minor numero. Le due parti, nelle quali si divide, sono: Virgilio e Dante una ; Omero, Orazio, Ovidio e Lucano l'altra; restando questi, e proseguendo quelli il loro viaggio.

[a] Tratt. 1. cap. 8. [b]- Trovasi però anche nelle prose de' buoni autori antichi feo per fe'. Vedine molti esempj nel Mastrofini, Teoria e Prosp. de verbi italiani, sotto il verbo Fare. n. 6. E. R.

Per altra via mi mena 'l savio Duca

Fuor della queta nell'aura, che trema: E vengo in parte, ove non è che luca.

149 Per altra via, cioè non più per quella che passava tra gli eroi, piana ed aperta, ma per un'altra affatto da quella diversa, per cui scendevasi al secondo infernal cerchio.

150 Fuor della queta. Che non fosse l'aria nella magione degli eroi da' sospiri agitata, accennollo Dante con dire che avevano essi sembianza nè trista, nè lieta [a]. — nell'aura, che trema, non per sospiri solamente, come al di là delle ma per sospiri, pianti, ed alti guai, come dal seguente canto apparirà.

sette mura,

151 ove non è chi luca, legge il Vat. 3199.

[a] Verso 84.

ARGOMENTO

Perviene Dante nel secondo cerchio dell'Inferno, all'entrar del quale trova Minos, giudice di esso Inferno, da cui è ammonito, ch'egli debba guardare nella guisa, ch'ei v'entri. Quivi vede, che sono puniti i lussuriosi; la pena de' quali è l'essere tormentati di continuo da crudelissimi venti sotto oscuro e tenebroso aere. Fra questi tormentati riconosce Francesca da Rimino; per la pietà della quale, e insieme di Paolo cognato di lei, cadde in terra tramortito.

Così discesi del cerchio primaio

Giù nel secondo, che men luogo cinghia,
E tanto più dolor, che pugne a guaio.

I

→Ci chiama Dante in questo canto a meditare la miseria delli carnali; ma Dante sa quanto sia l'uomo soggetto al potere del senso: Dante conosce quella passione che fu spesso lo scoglio e degli eroi e dei sapienti; e Dante parla colle voci della compassione e del più tenero affetto. Ecco la ragione poetica dell'orditura di questo canto, e della rappresentazione del pietoso fatto di Francesca di Arimino, che lo termina. SCOLARI.

2 cinghia, val quanto cinge, circonda. Nell'esempio dell'anfiteatro, recato nel precedente canto, v. 24., si capirà facilmente come di mano in mano debbano i più bassi infernali cerchj cinger men luogo, fare un più ristretto giro.

3 tanto più dolor, intendi, ha, cioè contiene più dolore; - che pugne a guaio, che punge e tormenta quelli spiriti fino

Stavvi Minos orribilmente, e ringhia:

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a farli guaire, cioè fino a farli mandare altissimi lamenti e strida; e non soli sospiri, come nel Limbo. Guaio è propriamente la voce lamentevole che manda fuori il cane percosso lagnandosi, e allora si dice il cane guaire. VENTURI.

4 Minos, figliuolo di Giove e d'Europa, Re e legislatore dei Cretensi, uomo d'incontaminata e severa giustizia, il quale finsero i poeti che fosse giudice all'Inferno insieme con Eaco e Radamante. VOLPI. - ringhia; ringhiare, digrignare i denti, minacciando di mordere, proprio dei cani, vale qui dimostrarsi pieno di sdegno Stavvi Minos, e orribilmente ringhia, così il cod. Ang. E. R. - La descrizione qui fatta di Minosse ha dato a molti motivo di tacciar Dante d'insoppor tabile stravaganza. - Landino se ne trasse d'impaccio affermando che Minosse in figura di bestia feroce e ringhiosa rappresenta i rimordimenti e i latrati della coscienza. - Magalotti osservò, che a conoscendo il Poeta l'obbligo ch'egli aveva di » uscire più che poteva dall'ordinario, rispetto al luogo e ai » personaggi ch'egli aveva tra le mani, andò trovando maniere » strane ed inusitate per significare i loro concetti. » — Biagioli null'altro ha scritto, se non che quella coda è l'ornamento più proprio di lui, e che Dante non lo poteva rivestir del robbone. - Riportate dallo Scolari siffatte opinioni, nè giudicandole sufficienti a giustificare il Poeta nostro, ed a mostrare quanto siasi anche qui contenuto entro i limiti del verisimile nell'ordine delle cose credute, si fa quivi a proporre alcune sue osservazioni, di cui ne daremo qui un brevissimo estratto, rimettendo i curiosi alle sue Note.

Minosse, figlio di Giove e di Europa, regnò in Creta famoso per la tremenda vendetta della morte di Androgeo, e per molt'altri ingiusti fatti e crudeli. Non per la sua giustizia adunque, ma per la sua ferrea severità e fermezza di carattere fu da poeti costituito giudice dell'Inferno. Se Dante l'avesse giudicato innocente, posto non lo avrebbe per certo nell'Inferno cristiano. Ivi ponendolo, s'avvide non convenirsi rappresentarvelo come giudice dignitoso e tranquillo che sentenzia. Lo trasformò quindi in un mostro orribile, incaricato dalla divina Giustizia di ordinare quel grado e qualità di pene che fossero le più proporzionate al delitto e le più corrispondenti al supremo volere. A dimostrar poi la proprietà e convenienza

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