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ma eziandio in altri molti degli originali, che prendono a tema le scienze scrutatrici della natura. Meriterebbero in fatto una accurata disamina sotto il prefato punto di vista del nostro autore, le tre stupende liriche che s' intitolano. Sul taglio dell' Istmo di Suez Sopra una Conchiglia fossile Natura e scienza. Ma io preferisco fermar la parola sul carme in sciolti, in cui l'autore prese a combattere i vecchi pregiudizii di certi poeti barbogi, che stimano l'ignoranza e la povertà quasi necessarie a serbare innocenti i costumi. E di questa mia predilezione è causa, lo scorgere come il poeta abbia risolutamente messi in evidenza i danni della ignoranza accidiosa che ammorbavano nel passato il civile consorzio, e, per riscontro, i vantaggi che questo adesso risente da que' trovati scientifici i quali, agevolando e perfezionando le industrie, crebbero ben essere, civiltà e independenza alle nazioni. Con quanta schietta energia di verso non mise egli in aperto il bisogno d'ogni popolo, e dell'italiano in particolare, a togliersi da quella povertà incurante ch'è il prodotto dell'ignoranza! E avvedutamente (quasi a renderlo più autorevole) indirizzava il bellissimo scritto a Fedele Lampertico, all'uomo cioè, che la mente perspicacissima e l'animo generoso adoperò e adopera di continuo a bandire i più sodi principii economici e ad istruire le classi operaie, onde scansino coll' utile lavoro, colla associazione e col perseverante risparmio, le angoscie ed i pericoli della miseria.

E con pari avveduta opportunità lo Zanella dedicava la saffica intitolata l'Industria, ad un altro benefattore di quelle classi, Alessandro Rossi, intelletto potente che nelle titani che manifatture da lui fondate nella sua Schio, si fece prezioso esempio ai danarosi d'Italia, affinchè (abbandonati gli ozii infecondi) le ricchezze destinino a quella operosità industriale che sola può rialzare dall'odierno scadimento economico la penisola, e distruggerne le antiche neghitose abitudini. Sacro dev' essere il lavoro pei popoli rigenerati dal cristianesimo, perchè dal lavoro attuato nell'umile officina di Nazareth ci venne il soffio avvivatore di libertà, tenuto compresso dalle religioni politeistiche.

Non di Atene

Nè di Roma venia chi le catene,

Ruppe agli schiavi,

Dal casolar del legnaiuolo ebreo
Nel mondo uscì mirabile dottrina
Che fè santo il lavoro, e l'officina

Novo Tarpeo.

Sotto le volte allor de monasteri

Correr di pialle un romorio s'intese,

E più grato al gran fabbro il suono ascese

D'Inni e salteri.

Vorrei pur dire di quelle liriche che scendono dolcissime all' ani

mo per soave mestizia d'affetto o per delicatezza squisita di pensiero, quali sono, per nominarne alcune. · Ad un antica immagine della Ma

Per un amico parroco.

donna. La Veglia; ma oltrepasserei di troppo i limiti concessi ad un articolo bibliografico.

Ho promesso di manifestare tutte le mie impressioni su codesto egregio libro, quindi, per debito di imparzialità e anche per cansare fin il sospetto di adulazione, dirò anchè le meno gradite venutemi da qualche componimento per nozze o per onomastico, che non mi par degno di star nella riga elevata de' rimanenti. Gli è naturale; nei lavori d'occasione torna difficile anche agli abilissimi di lanciare il pensiero ad alto volo. Altre poesie (e son pochissime) che pur si raccomanderebbero pel tema trascelto, mi parvero scarse di quella spiccatezza di concetti e di stile ch'è nelle restanti, e talvolta urtano, se non erro, in qualche, non dirò inesattezza o volgarità, ma poca precisione o scelta di parola e di frase. Ad esempio, nelle Ore della notte non tutti accetteranno senza riserva: i vomeri che TORNANO, (nè si dice dove o a far che). La villa che posa SOTTO la coltrice. nelle ampie tenebre. CROCITA sull' aia.

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La giovinetta che SCALPITA.

L'astronomo che SBADIGLIA.

La reggia che SCENDE

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La gallinella che

La squilla che SCOPPIA dalla torre. E nei versi per la morte di Daniele Manın, non tutti faranno buon viso ai colombi che BISBIGLIANO un nome: a Venezia che si risente all'anelito dell' oriente: ai santi che levano le PATERE dai loro pilieri.

Non ho bisogno, spero, di aggiungere che quando pure le notate e poche altre consimili, fossero vere peccatelle dell' aureo volume, non ne vien per questo ch'esso rimanga meno uno de' più pregevoli dell' odierna letteratura nostra, e tale anzi da assicurare, non solo grande e durevole rinomanza al suo autore, ma da ridestare nelle classi colte l'amore a quella solida poesia che sa elevarsi poderosa ai più gravi problemi dell'odierno consorzio civile, e degnamente trattarli.

Ed è grande conforto di chi deplora, a ragione, i miseri panni che or coprono il pubblico insegnamento letterario in quest' Italia, il pensare, che lo Zanella può adesso dar col precetto vigore alle nobili verità ch'egli, cogli egregi esempii, propaga. Professore di lettere italiane nella Università di Padova, egli varrà senza dubbio, colla efficacia della sua eloquente parola, a condurre i giovani verso que' modelli, quegli studi e que' pensamenti, che soli possono farsi diga contro le vuote volgarità, contro gli errori di stile, di lingua, di concetto, da cui si mostrano inzaccherate tante odierne scritture.

Così il Governo, che profonde somme considerevoli ad un' istruzione letteraria, in più punti male organata, in più luoghi malissimo esercitata,

chiamasse uomini come lo Zanella, anzi lo Zanella medesimo, a rifornire di timone e di vele, la sdruscita barca, vagante oggidì alla ventura ed in balia di venti turbinosi che finiranno a gettarla sugli scogli del sapere monco e superficiale, più assai di ogni grossa ignoranza dannoso!

P. SELVATICO

RASSEGNA DELLA QUINDICINA.

8 Novembre 1868.

Molte parole e pochi fatti diceva un vecchio Ateniese quando gli si narravano i trionfi degli oratori popolari. E l'Europa da parecchi anni è proprio vittima delle parole. Discorsi di ministri, discorsi di sovrani, articoli di giornali, opuscoli, tutto si getta in mezzo per adescare il pubblico e persuaderlo di ciò onde non pare voglia essere persuaso, cioè che ora si sta bene e che bisogna godersi il mondo in pace. Sta bene, ma le parole per quanto lusinghiere e sonanti non tolgono la fame a chi l'ha, non rendono ricco chi è povero, non sano chi è infermo, non mite chi è iracondo. Guardate che avviene in Ispagna dopo la rivoluzione di Cadice? Leggiamo ogni giorno dichiarazioni e proclami e decreti, che accusano ed assolvono, secondo gli umori degli scriventi; ma intanto a Madrid si fa una pacifica dimostrazione al glorioso e magnifico Don Prim per una quistione di fame. E il non meno magnifico e glorioso Figuerola manda subito fuori un bando, perchè sia dato pane agli affamati e si pigli il grano dalle pubbliche dispense per distribuirlo a' poveri. A poveri! Intendete o amatori e predicatori di rivolgimenti? Quel popolo che volete rigenerare, la cui sovranità pomposamente proclamate, vi grida che ha fame di pane! Tutti i manifesti, i discorsi, le dichiarazioni non vagliono per lui un' oncia di pane per isfamare sè e i figli. Intanto si va avanti colle demolizioni; si abbattono chiese, conventi, si sopprimono corporazioni e si confiscano beni, ma ciò non sazia le fameliche turbe che assediano le porte delle Giunte e de' ministeri per avere di che campare alla giornata. I pubblici serbatoi di pecunia sono vuoti, e si chiede a prestanza settecento milioni! Su qual fede? Della rivoluzione che domina, ma che non è sicura della dimane? Su quella di un governo creatosi da sè, che fa leggi, disfà, sentenzia, esegue, senz' altra norma che il proprio capriccio, senza altro sindacato, che una dubbia adesione de' suoi aderenti?

Ma le casse in pochi giorni votate non ammettono ragionamenti: bisogna aver danaro in borsa diceva Iago a Cassio, e dice Figuerola a Serrano. Senza borsa ben fornita non si satollano le mille bocche dell' Idra che si sono aperte. Si farà dunque il prestito della rivoluzione. Pare però che il danaro non voglia essere cosi pronto come furono gli applausi, perchè da parecchi giorni il prestito è avviato, ma i prestatori non sono ancora accorsi. In quella vece accorrono gli sparvieri d'America per negoziare Cuba. Si quell'isola fa gola ai seguaci della teoria di Monroe, chè agli stranieri si chiude il passo per intrigarsi delle cose Americane, ma è libero agli Americani di mescersi alle altrui. La rivoluzione è fatta apposta per muovere tutti gli appetiti, e questa di Cuba è vecchia nei petti de' discendenti di Washington. Che il governo provvisorio de' generali sia da meno del governo di una donna, e che si stia per fare ciò che questo non volle far mai? Tutto è possibile coll' anarchia mascherata di libertà. Di convocare le Cortes, di stabilire qualche cosa di regolare, non si parla oltre. Si dice che la legge elettorale si sta facendo, ma che ci vuole il suo tempo.

Intanto che cosa si vede per le povere provincie della Penisola Iberica? Un arrabbattarsi continuo di faccendieri politici che vanno tastando il terreno per qualcuno dei tanti candidati e pretendenti al trono di Spagna, se monarchia vi sarà, perchè anche questa è dubbia. I decemviri del governo provvisorio dichiarano in prevenzione, e ciò per non mettersi male colla Senna, che non appoggiano la candidatura del Duca di Montpensier: fanno credere pro bono pacis, che preferiscono D. Fernando di Portogallo, perchè almeno questo non desta gelosia. È o non è? Bisogna temporeggiare cogli eventi e dar campo agli umori di sfogarsi.

Anche a Parigi si temporeggia cogli umori della rivoluzione che va rimettendo fuori il capo dove e come il possa.

Ora s'è manifestata sovra una tomba al cimitero di Montmartre per un antico deputato della costituente repubblicana del 48. Altra volta era per Cavaignac; e v'è chi adombra di tali significazioni degli umori popoleschi. Le elezioni generali si avvicinano, e questi segni di lutto non sono di buon augurio. Voglio intorno a me, dice Giulio Cesare nella tragedia di Shakspeare, volti rubicondi e grossi; cotesto Bruto scarno e livido mi dà noia. Gli è vero che per dar da rodere al corsiero indomato, si mandano fuori quelle certe carte nuove di una geografia creata proprio ad usum delphini. Ma le carte colle loro strisce cangianti e variamente giranti, se appagano qualche dilettante di mappamondi, non solleticano il palato schizzinoso della plebe parigina. Vien fuori la critica co' suoi motti arguti e dice: che quando la Francia giuoca alle carte, il mondo è tranquillo. Vien fuori la storia e dice che a' tempi della geografia antica la

Francia teneva un esercito di 300 mila uomini, e che ora dee averne uno di un milione e 400 mila, Gli è vero questo, replicano gli amatori dei tre tronçons inventati per figura rettorica da Rouher, ma intanto non abbiamo più un'Alemagna di 80 milioni sempre pronti a collegarsi a' nostri danni. Si, dicono gli altri; ma la Prussia v'è amica, vi sono amici i principi del Sud, siete sicuri dell' Austria?

Il signor di Beust chiede anch'egli per tener neutrale l'Austria 800 mila soldati, e ciò perchè la casa d' Absburgo è a terra. Ma subito v'è chi dà sulla voce al ministro di Francesco Giuseppe e fa cataplasmi sulla esplicita dichiarazione al Comitato di guerra. Questa pace benedetta di che tanto ragiona il discorso di re Guglielmo di Prussia dura fatica ad accreditarsi. Appena appena la si tocca, gli è come quelle figure de' sotterranei, che se ne vanno in fumo.

Che basi potenti ha mai, la pace presente, se ogni vento basta per crollarle ?

Anche in Italia dove ce n'è più bisogno si vuol ragionare di pace.. Due de' nostri ministri l'hanno fatto con abbastanza disinvoltura e sincerità, perchè si possa credere alle loro parole.

In un banchetto dato in Mugello al deputato Corsini, sorse il Digny e fece un quadro a tinte nè fosche, nè liete delle condizioni finanziarie, dicendo quanto s'era fatto e quanto restava a farsi per ristorare il credito italiano. Intimò lavoro e lavoro: fede onesta nell' avvenire, e bando alle esagerazioni; e Digny fu creduto appunto perchè non esagerava invocando e sperando senno ed operosità dagl' italiani.

Ad un altro banchetto dato a Chiavari per l'inaugurazione del tronco di ferrovia da questa città a Genova, il Cantelli parlò nello stesso senso e raccomandò quiete onorata di studi e di fruttifere fatiche, e bando alle agitazioni. Dichiarò anche a questo proposito i fermi intendimenti del governo, che sono, di cercare ogni mezzo di guarire Italia da questa piaga importataci dallo straniero. La parola adulterata dai commentatori della rivoluzione, la parola che racchiude i destini d'Italia e ne compendia le virtù, suonò sulle labbra del ministro dell' interno coll'accento della persuasione. Vogliamo ordine e legalità, egli disse, e combatteremo con questa quanti sono che instaurar vorrebbero il regno dell'agitazione e del disordine. Non leggi eccezionali, ma dominio assoluto e continuo della legge. E così è difatti. Se in Italia da parecchi anni si patiscono mali assalti all'autorità pubblica, se l'orgoglio delle parti cresce; se la sicurezza pubblica è spesso minacciata da atroci misfatti, si dee alla violazione delle leggi, all'abuso della tolleranza, alle torte interpretazioni, alle false idee seminate nel pubblico da una stampa senza freno e pudore. Quindi ne piace pigliar atto dalle dichiarazioni dei due ministri del Regno Italiano,

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