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MEMORIE

D'UN VIAGGIO IN SICILIA.

(Cont. e fine vedi vol. VII, pag. 400)

APPENDICE.

Museo Borbonico.

Eatriamo, per un momento, nel regno della scultura, regno sì va-
sto e si prodigioso, che il pensiero, non che lo sguardo, vi si smarri-
scono; attraversiamolo colla fretta di un tory inglese, vale a dire, a
passo di carica; non abbiam-tempo di soffermarci, e poi, di certe cose,
è meglio dir nulla che poco. Dove stava nascosta tanta popolazione di
statue? come è uscita alla luce? A riguardare le diverse sembianze,
le diverse fogge del vestire, i diversi caratteri delle sculture, diresti,
che per virtù di Merlino, siano uscite di sotterra, come fantasmi del
passato. Quelle imagini togate non rappresentano re barbari, imagini
che forse decoravano anticamente le loro reggie di Asia o di Germania?
Non è quello il ritratto di Annibale, meravigliato di trovarsi ancora in
Italia? E quello non è Pericle che si affisa nell' effigie di Augusto,
mentre Socrate guarda, non senza pietà disdegnosa, il busto di Seneca,
precettor di Nerone? Non è quello il ritratto di Alessandro, che sta a
rincontro di Bruto; Epaminonda, accanto a Tiberio! Che strana me-
scolanza! Pare che la fortuna non abbia ancora cessato da suoi ca-
pricci, dalle sue prepotenze.

-

Oh la fortuna non è che un nome, non che un simbolo della in-
sania e malvagità umana. Chi ha raccolto, da ogni parte della terra,
monumenti così diversi, condotti a sì strano convegno, tanti illustri per-
sonaggi, è il genio romano, che chiamava caput orbis la sua città, e
vi ammassava, come spoglie della vittoria, le divinità, le glorie artisti-
che de' popoli conquistati. E notate, che - per doppio sacrilegio!
non avea punto nè il culto, nè la stima dell' arte; che collocava nei
gabinetti delle prostitute imperiali, le cinquecento statue di bronzo, che
avea rapite al tempio di Delfo; che permetteva imputridissero nella pol-
vere le tavole di Apelle, di Zeusi; e nelle orgie sue sanguinose ponea
a dileggio sul capo di Platone e di Socrate, le corone ammorbate dei
suoi conviti. Meno male quando ne ornava le portentose sue ville dí

Ostia, di Baia, di Sorrento, di Pompéia, di Ercolano, che racchiuse per tanti secoli nelle loro ceneri, ce le conservarono ! Sareste quasi per benedire il Vesuvio, se colle statue, non avesse pur ravvolto nello stesso lenzuolo tante creature viventi !

A dirvi il vero, non sarebbe stato gran male, se di certi mostri, tratteggiati a dovere da Tacito, si fosse perduta ogni traccia; ma d'uopo è pur confessare, che ritengono anch' essi, nella feroce abbiettezza dei loro vizi, dei loro delitti, un'impronta grandiosa della natura romana. Potete abborrirli, ma non disprezzarli. Quella Poppea è veramente una donna, cui nulla manca, fuorchè la virtù; quella Agrippina, così raccolta maestosamente ne' suoi pensieri, ha tutto il decoro di matrona romana; quel ritratto di Nerone fanciullo, ha pur l'impronta di una natura gagliarda, direi quasi del genio simile non poco al ritratto di un moderno conquistatore. Dopo aver osservati certi mostri dal volto umano, come si osservano nei serragli certi altri animali feroci coi quali ha pur comune lo sviluppo straordinario di organi esteriori molto caratteristici, vi inchinate, con affettuosa riverenza, dinanzi all'imagine di altri personaggi, che imparaste ad onorare sin dall' infanzia. Quello è Vespasiano, che Tacito appellava delizia del genere umano; quello è Marco Aurelio, i cui precetti tanto si accostano a quelli del Vangelo; quel terzo, cui la pallidezza del marmo nulla tolse al color naturale, con un pensiero così cupo sulla fronte, è Bruto, che dovea a Filippi proclamare la virtù serva della fortuna; e presso di Bruto è Giulio Cesare, che pare lo rimproveri ancor d'uno sguardo. Più lungi sta l'imagine di Sertorio, che cercava nel fondo della Spagna un ultimo rifugio alla libertà romana. E tra costoro è pur notevole quel busto di Annibale, che sarebbe stato, come egli disse, il primo capitano del mondo, se Scipione non l'avesse vinto. Ma Scipione era giovane; e la fortuna ama i giovani. Voi forse, gentili lettrici, che leggeste la storia di questo eroe, scritta dai romani, vi aspettate un brutto ceffo africano, qualche cosa che corrisponda alla ferità dell' animo; disingannatevi, questo temuto guerriero, ha lineamenti regolari, delicatissimi, un leggiadrissimo arco del cielo, un labbro che facilmente sorriderebbe, se voi, nel passargli accanto, lo rallegraste d'un vostro sguardo. E via, provatevi a questo miracolo; Annibale, mercè vostra, accetterebbe la cittadinanza del regno italiano, tanto più che per l'Italia moderna non è l'abominatus Annibal, ma un gran cittadino, un integerrimo cittadino, che consacrò tutta quanta la vita a servir la sua patria, e ricorse al veleno, serbato così a lungo nella sua gemma, per sottrarsi all' odio codardo ed implacabile de' suoi nemici. Oh sarebbe il ben venuto!

Non parlo degli eroi della Grecia, che non tanto si distinguono da'

RIVISTA UNIV. ANNO VI.

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Romani per la diversa foggia delle armi, quanto per la differenza naturale dei caratteri fisici, e per l'espressione che ne risulta. Il tipo esterno del romano corrisponde all'interno; è l'effigie dell' anima. Il collo toroso, larghe, ben tarchiate le spalle, risentita la muscolatura, tutto che in riposo, come quella dell' Ercole Farnese; la fronte bassa anzichè no e quadra, con gli organi della riflessione, pronunciatissimi; e quando prominenze così spiccate della fronte si accompagnano a mascelle così angolose, d' un taglio così leonino, abbiate per certo, che il povero cuore si contenta alle prosaiche funzioni di viscere digestivo. Voi giudicate, a primo sguardo, che quest' uomo, diseredato di sentimento, di fantasia, ma freddo calcolatore, senza cuore, ma con stomaco di ferro, e corrispondente armatura di denti, è fatto per dominare il mondo, dopo aver dominata, tiranneggiata la famiglia con quella brutale parola ripetuta ad ogni momento, potestas viri, manus viri, che compendia gli affetti domestici; i Bruti che uccidono i propri figli e il proprio padre per la libertà della patria, sono un triste privilegio della storia romana, una gloria che niuna altra nazione invidia a quei superbi dominatori della terra.

Il tipo greco al contrario, quale ci appare da molti ritratti, è d'un genere diverso affatto, anzi opposto. Il collo è leggiadro, ben tornito, elegante la spalla, il volto ovale, il naso ben profilato, la fronte arcata, dolcemente piana; è insomma una linea curva che svolge gradatamente tutte le sue armonie. Il genio del bello lo informa, lo ispira; l' Apollo di Belvedere ne esprime l'ideale. Le virtù di quest' uomo non avranno troppo salde radici, ma il vizio non riuscirà a depravarlo compiutamente mai, perchè la fantasia, il sentimento, queste forze di rigenerazione, predominano nella sua natura; perduta la libertà civile, potrà ancora conservare il culto dei gentili affetti, la cetra degli eroi nei penetrali della famiglia; mentre il romano, così freddo, così riflessivo nel suo coraggio, perduta la libertà, che nobilitava, occupava tutte le sue potenze, diverrà atroce, infame, peggiore di Nerone, in cui si incarnava il disprezzo dell' umanità e la negazione di Dio.

Tuttavia, sospendiamo per un momento il nostro giudizio. Vedete quella figura di donna, così gentile, così vereconda, così mesta? L'etichetta ve la dichiara imperatrice. Oh, appartiene dessa realmente alla stirpe degli oppressori? L'anima di quella donna non può essere stata che bella, bella come la forma che si é assimilata. Se ella ha passata la sua vita nella reggia orrenda dei Cesari, mi imagino quanto avrà sofferto nelle tacite amarezze del suo cuore; ella rallegra ancora adesso la fredda atmosfera che circonda quelle torve fisonomie de' Cesari; e mentre vi allontanate richiama ancora il vostro sguardo.

Le statue greche si distinguono agevolmente dalle romane (che forse sono copie eseguite dagli schiavi), per quel senso di delicatezza che è carattere del genio ellenico; il marmo, accarezzato dalla lima, ha dimessa la sua rigidezza. Tuttavia ho notato che l'uso di pulire i marmi, adottato dai nostri scultori, in epoche di decadenza (giova citare ad esempio la bella statua di S. Sebastiano del Puget, nella chiesa di Carignano in Genova), era pure ammesso nella Grecia nell' età più fiorente dell' arte, come il dimostrano que' stupendi gruppi: il Fauno che sostiene un Bacco bambino, Ganimede e l'aquila, il Satiro che ammaestra un pastore a suonare, e aggiungerò pure il tanto ammirato Ercole Farnese, che parmi tuttavia d' un gusto già inclinevole al barocco, d'un collo così enorme e di una testa così piccina, che minaccia ad ogni momento un colpo apopletico.

Alcune di queste statue esprimono si vivamente il carattere del paganesimo, che a primo sguardo lo comprendi in tutta l' insuperabile poesia della forma: è veramente la materia divinizzata. Quel Ganimede che accarezza l'aquila, e ne è da essa corrisposto con un amplesso affettuoso dell' ala, ha tale un sorriso affascinante, che Giunone avea ben diritto di insospettirsene; quella Nereide sul cavallo marino, quell'Amore e il delfino, quella Venere ed amore, simboleggiano con sembianze avvenentissime, ciò che la natura ci presenta di più ammirabile, di più seducente, nei diversi suoi regni.

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Ma in tanti atteggiamenti, in tante espressioni del volto umano, non ve ne ha una sola che ritragga il sentimento del dolore nobilitato dal sacrifizio, confortato dalla speranza. Quanto sono svolte mirabilmente tutte le forze, tutte le armonie del corpo umano, altrettanto rimasero sconosciute, non curate, quelle dell' animo. È l'uomo fisico nella sua apoteosi; l' uomo morale è velato; quindi l'arte necessariamente degenerava in sensismo.

Ho tutt' altra intenzione, tutt' altro incarico, che di descrivere il museo Borbonico; ma tuttavia non posso uscirne senza citarvi alcuni bronzi che formano l'ammirazione dei viaggiatori; bronzi che negli anni 1755-54 e 59, vennero scoperti in Ercolano. Sono tre ritratti, uno de' quali rappresenterebbe, secondo alcuni, Archita di Taranto, il famoso filosofo pitagorico ed illustre capitano, poichè reca in capo, una benda, che ha comune con altri suoi ritratti; il secondo sarebbe Platone, figura nobilissima, improntata d' una alta quiete, proveniente da quelle regioni ove spaziava l'anima sua; il terzo è certamente quello di Seneca, che vidi ripetuto in molti altri busti, fisonomia meno nobile nell' espressione, meno regolare nei lineamenti, anzi (sto per dire) ben poco simpatica. In Ercolano venne pure scoperta la statua di Ari

stide, alta sette palmi e mezzo, degna di essere collocata tra i capoJavori dell' antichità, a giudizio specialmente del Canova, il quale, ogniqualvolta si recava a Napoli, si faceva debito consacrarle la prima sua visita. Vi è una bellezza così naturale, e così ideale al tempo stesso, che l'anima, in contemplarla, si purifica, si sublima. La virtù non poteva essere meglio ritratta; nè parlare allo sguardo un linguaggio più eloquente. Giova soggiungere che è in marmo greco; nè certo questa nobile materia fu mai adoperata in argomento che ne fosse più degno.

Non sarebbe desiderabile che l'imagine di questo gran cittadino venisse collocata, (assai meglio che certi Tritoni, animali anfibii, che non sai a quale schiatta appartengano) venisse collocata, ripeto, nella aula de' Parlamenti nazionali? Aristide, che scrive sulla conchilia il proprio nome, sarebbe un bel ricordo nel giorno delle elezioni!

Dopo di aver parlato di Aristide, non ho coraggio di additarvi quel Fauno ubbriaco, che è tuttavia uno de' bronzi più ammirati, acconcio quanto altro mai a dimostrare, come l'arte antica abbia toccato l'eccellenza ovunque pose mano. Essa, non meno della moderna, si appunta nel reale, ma sa innalzarlo sempre ad un non so che di ideale, donde la scoltura non debbe assolutamente dipartirsi mai, a guisa di matrona, che anche negli scherzi di un momento, non rinnega mai la sua dignità.

Se la statua di Aristide ispira riverenza, quel buon Fauno mi comunica la sua allegria; e parmi che nel suo genere valga tanti altri tipi vestiti all'eroica. Lo scultore ha dimostrato che non ci vuole poi tanto a rendere felice un uomo; che la natura non è stata matrigna con alcuno; anzi che sa riparare, con un semplice bicchier di vino, a tutte le orgogliose disuguaglianze inventate dagli uomini. Chi più felice di quel Fauno? Egli sorride, gesticola col braccio in alto, ragiona chi sà con chi, si crede chi sa dove. Oh io penso che certi filosofi sarebbero ben lieti se potessero attuffar talvolta tutta la loro filosofia in una tazza di buon vino... se ancora se ne trova, dopo che gli osti vanno alla scuola! E quel Fauno ubbriaco non è forse anch'esso un filosofo? Forse che tanti uomini, che chiamansi serii, e perdono il cervello per il vapore dell'ambizione, sono più saggi, più felici di lui? Basta; quantunque in tutta la vita non abbia perduto mai il cervello in onore di Bacco, ammiro questo Fauno, che mi rappresenta una fase della vita umana; e ringrazio lo scultore, che in mezzo a tante cose tristi, mi ha fatto decentemente sorridere.

Ma ciò non serve, ben lo comprendo, che per un momento; e io sarei ben duro di tatto, se volessi, gentili lettrici, rattener più oltre la vostra attenzione su d'un uomo avvinazzato. Ob vedete, poco lungi,

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