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Conferenze serviranno a snebbiar le menti dalle dottrine nocevoli alla religione e alla società? (1)

Nell' affrontare i soggetti più pericolosamente delicati mostrasi ardito eppure frenato, rara unione; talvolta vivo, non mai violento; onora il passato senza truffar il moderno, e non che abbandonarsi alle rose declamazioni contro il secolo fin a ripudiarne i grandiosi progressi, li riconosce, gli accetta, se ne vale: sa che l' uomo riceve inevitabilmente l'influenza de' suoi tempi, è imparentato co' suoi coevi, onde gode e soffre con loro, e s' indigna con chi o trae o versa l'obbrobrio sulla nostra cara patria.

Cristo comandò Insegnate: insegnare è amare, è sperare, è attirare alla verità coll'esporne le bellezze. Questo ci parve fare l'autore, onde gli diciamo: Clama, ne cesses; c' incoraggi colla sua parola e col suo esempio alle grandi battaglie dell' anima e dell' intelligenza.

Ben sentiamo lamentarsi di una generazione cui fu strappato e il culto del passato e il timor dell' avvenire; d'una fllosofia che beffa impudentemente le cose onde l'anima s'onora, e ci respinge verso la dottrina sensualista e negativa; d'una letteratura che mira soltanto a divertire, ed esalta solo i mimi del vulgo; d'una critica, che coi buoni mostrasi cavillosa, meschina, provocante, più tirannica dell' antica censura, e, se non altro col silenzio, osteggia ogni celebrità per timore che diventi influenza; d'una società allettata dal guadagno facile e senza lavoro, dove gli idolatri della ragione si sposano coi solleticatori del ventre; d'una politica che ha per unico dio la riuscita. Che perciò? dobbiamo rinserrarci a maledir il secolo, a disperar dei tempi e dell' indestruttibile vitalità della chiesa? (2)

Il secolo XIX non può esser salvato che al modo del secolo XIX; e Simone Stilita o Torquemada, le Crociate o i Flagellanti sarebbero oggi fuor di posto, quanto le catapulte o la questione della luce increata. Bisogna comparire colle armi compite e raffinate;

Clypeos, Danaumque insignia nobis aptemus,

(1) Breve del 20 settembre 1867.

(2) Un gesuita, nel giornale che gesuiti pubblicano a Parigi (il p Toulemont nelle Etudes religieuses, historiques & litteraires 8.bre, 9.bre 1868) combatte coloro che denigrano sistematicamente il nostro secolo come di ferro: e se non aderisce a quelli che, con opposta esagerazione. lo alzano di sopra ai migliori secoli della storia, si avventura a dire che si sarebbe ben imbarazzati a provare che, fatto ogni paragone, non v'abbia oggi sulla terra altrettanti meriti e virtù e giusti, altrettante anime che si salvano, quanto ne' migliori secoli cristiani, neppur eccettuato il tredicesimo ».

studiando a fondo l'insieme cattolico di tutte le scienze divine e umane, conciliando la tradizione avita coi bisogni nuovi; l'autorità ristabilita sulla base irremovibile colla libertà svolgentesi in moto continuo.

Asimo! Si esca da quella inazione che è pur essa un modo di operare, giacchè porta conseguenze di cui siamo responsali, come il tacito testimonio d' una ribalderia; dalla virile preoccupazione degli affari pubblici non ci distolga un' improvvida astensione, ricordandoci con Bacone che le prosperità erano la benedizione dell' antico Testamento, del nuovo le avversità; persuadendoci con Donoso Cortes che « per noi cattolici la lotta è un dovere, e ringraziam Dio che ci ha dato il combattere »; in mezzo a cittadini piuttosto scontenti che liberi, esercitiamo una resistenza intelligente e caritatevole, una sommessione ragionata; quanto più il giorno s'avvicina, spieghiamo quella volontà energica che è troppo rara fra i buoni; amiamo per operare, operiamo per vivere nella speranza e morir nella fiducia: all'odio fanatico e all'intollerante iracondia opponiamo l'associazione degli onesti, la propaganda del bene, la perseveranza a voler ottenere il riposo nella giustizia comune e l'unità nella verità.

CESARE CANTU'.

REMINISCENZE

DI UN ANTICO PAGGIO DELL'IMPERATORE NICOLO'
(Dal Correspondant)

Alcuni mesi dopo che io ero tra' paggi, un giorno all' uscir delle scuole avvertii un insolito frastuono. Vedeansi nel tempo stesso ufficiali di guardia sopraggiungere frettolosi e affaccendati, e paggi di corte con loro, ed ispettori, e man mano quanta mai gente era addetta alla casa.

« Ai posti, signori, ai posti! vien l'imperatore! » gridò a un tratto il capo della nostra compagnia con tal voce che venne a noi fino in fondo ai dormitori ove prima del pranzo usavamo radunarci. A quel nome ebbi un senso di commozione indicibile: io non l' avea veduto ancora, e i racconti di mia madre e de' miei compagni, che le mille volte avea udito ripetere, me lo raffiguravano più che del vero coi colori della leggenda.

L'ufficiale di servizio c' ebbe in breve disposti a mo' dei militari,

ciascuno in piedi accanto al suo letto, e poi chè così ordinati ci facemmo ad attendere, non tardò il capitano ch' era in vedetta a recarci esser già l'imperatore per le scale. Un silenzio profondo si fece a quell'annunzio, e per un istante al solito brio chiassoso del dormitorio era succeduto un raccoglimento così solenne e religioso che non s' udiva neppur fiatare. Ora l' ufficiale senza scoprirsi corre al suo posto sul limitare della porta, ed ecco nell' ampio vano di essa apparire un uomo della statura altissimo, di volto severo, d' aspetto maestoso, colla divisa di gala da generale, in mezzo a numeroso seguito d'ufficiali d'alto grado. Era Nicolò I.

In tempi posteriori sono stato ammesso alla presenza della maggior parte de' sovrani d' Europa, e più volte mi fu anche dato l'onore d'entrar con esso loro in ragionamenti, ma la dignità reale mai più non mi è apparsa sotto forma più profondamente improntata della suprema maestà, nè mai più m' è corso per la vita quel brivido di gelo che provai al primo apparire dello Czar.

Diritto della persona incedeva con alterigia fissando uno sguardo così indagatore in fronte a coloro cui rivolgeva la parola che sembrava volesse scrutare i loro più riposti pensieri. Quel portamento incuteva rispetto, timore la sua presenza, e da quel suo comporsi regalmente e dall' orgoglio del volto traspariva appieno il pochissimo conto in cui teneva gli uomini, e il gran concetto ch' avea di sè e della propria onnipotenza in cui cieca era la sua fede. Aveva membra colossali, il volto d'una maschia bellezza, uno sguardo severo, penetrante, irresistibile e tale che perfino chi mai non l'avesse veduto, e coperto d' umili panni l'avesse per la prima volta scorto fra venti generali in tutta la pompa delle loro divise, a quel solo indizio o a quello del suo contegno nobilissimo, avrebbe avuto certezza irrecusabile dell' eccelso suo grado.

Percorse la sala in giro, entrò in parole con alcuno de' paggi, e finalmente venne alla mia volta. A qualche passo dal mio letto il direttore se gli fece dappresso dicendo: Sire, questi è il D...

-I D...! disse l'imperatore, e rivoltosi a me:

Come sta tua madre?

Bene, Sire,

Mi è molto amica.., e tu sei contento del nuovo soggiorno?
Son contento, Sire.

È egli qui da molto! chiese poscia al Direttore.

Da due mesi, Sire.

La condotta?

Buonissima.

Bravo!

Essendosi fino a questo punto parlato il francese, ripreso meco il discorso l'imperatore mi chiese in russo.

Hai imparato il russo?

-Non ancora, Sire, risposi in francese.

E come, nulla in due mesi! Fa scandalo. Neppur tanto ne sai da dir di no?

Vostra Maestà mi perdoni, coi miei compagni lo parlo.

E perchè allora, scioccone, se lo sai pe' tuoi compagni, mi rispondi in francese quando io t' interrogo in russo?

Perchè se non mi esprimo a dovere con un paggio, non v'è gran male; ma colla Maestà Vostra...

Va innanzi.

Ho sentito dire che al suo cospetto non si debba far cosa che stia male, ed a me pare non aver così alle mani il russo da doverlo parlare innanzi la Maestà Vostra senza tema d'esser colto in difetto.

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Bene sta, disse l'imperatore, e volgendosi al generale Phi

Costui mostra non voler essere un balordo, e passò oltre.

Nicolò I Paolowitch, terzogenito dell' imperatore Paolo I non aveva mai avuto pensieri di regno. La via del trono essendogli preclusa dai due maggiori fratelli, giovani entrambi ed intelligenti, non ad altro si credeva chiamato dalla sorte che al fasto ed agli ozii granducali. Però di quanta pertinacia fosse l'animo suo e quanto avesse dell' arbitrario e del tirannico, lo aveva addimostrato dalla prima giovinezza, quasi presagio del suo regno e della sua futura politica. Fra' libri che occorsero alla sua educazione giovanile si rinvenne un volume di Karamsine, la storia della Russia, postillato di proprio pugno a questo modo: « Lo Czar Ivan IV il terribile fa severo ma gusto; come appunto si richiede pel governo de' popoli ».

Cosiffatti pensieri propagati senza ritegno da Nicolò non potevano a meno di destare l'apprensione di un popolo e d' una corte a cui erano ancora troppo recenti i ricordi del regno di Paolo I suo padre, morto appena da 25 anni. Il matto dispotismo di costui, con tutto che poco durasse, aveva per tal modo assuefatta la Russia, la Russia istessa all' arbitrio più sfrenato, che n' era venuta al più miserando stato di corruzione, e da ultimo una rivolta di palazzo avea posto un termine alle stravaganze del novello Eliogabalo. Si seguivano coi giorni le condanne arbitrarie, e i favori inaspettati, e le improvvise disgrazie. È nota l'avventura di quel soldato che incontrato a caso per via venne nella sua grazia per la bella mostra che di sè faceva.

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Ma disgrazia volle che quel giorno l' imperatore dovesse star fuori men che non era uso, e giacchè era in lena, in pochi minuti di più lo decretava addiritura maresciallo di campo. Per difetto di tempo questo favorito di un quarto d'ora ebbe a starsene contento al grado di maggior-generale. Però alcuni giorni dopo, trovato di nuovo dallo imperatore come l'altra volta, e come allora invitato alla stessa passeggiata, colla medesima serie di capricci ma in senso inverso, dovette il dabben uomo vedersi togliere ad uno ad uno i gradi acquistati, ed in meno di mezz'ora da maggior-generale tornare nuovamente semplice soldato.

Le cosiffatte stravaganze meno biasimevoli per una granduchessa di Gerolstein che non fossero dicevoli all' imperatore di tutte le Russie, erano della vita ordinaria di Paolo I. Una volta dava la rassegna al reggimento delle guardie a cavallo, e poichè mostravasene scontento, ad un tratto come se fosse stato per ordinare la più semplice evoluzione, comandò:

Ad uno ad uno! Per fianco dritto, in Siberia ! El'intero reggimento cogli ufficiali a capo dovette a grosse marce ridursi in Siberia. Era più che a metà del viaggio, quando il conte Rostopchine ottenne la revoca della strana ingiunzione.

Sotto Alessandro I si dava, senza ritegno, del despota a Paolo I così per la città come a corte: ma Nicolò che se non osava nè si sentiva in grado di riabilitare la memoria del padre, tuttavia non giudicava di sana politica ed esente da pericoli lasciare che il popolo non avesse uno Czar in quella riverenza che si debbe, proibì che il nome dell' aborrito autocrate in tutto l'impero fosse udito ricordare: e sopratutto volle impedire che prendesse voga la tetra leggenda della morte di Paolo 1. Così lungo il suo regno il silenzio e la dimenticanza ravvolsero completamente quello del padre suo.

Regnando Alessandro I suo fratello, Nicolò che non aveva, come è detto innanzi, presentimenti di regnare, si teneva in disparte, e dato soltanto alle cose militari, chiamava ogni dì a rassegna i reggimenti, studiava miglioramenti alla condizione del soldato, e nuovi organamenti dell' esercito. Il matrimonio del granduca Costantino colla principessa

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