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chiunque pensi, quanto tutti i commentatori di Dante per seicento lunghissimi anni si sono dati attorno per ispiegare in modo soddisfacente il verso succitato, senza poter rimuovere quel denso velo che lo circonda, parrà cosa strana, e più vicina alla pazzia che alla superbia, che oggimai qualcuno osi persuadersi di potere rischiarare quella fittissima tenebra, quando ad uomini di illuminata scienza, e di acutissimo e perspicacissimo intelletto non fu dato vederci più in là di una leggerissima penombra.

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E, a dire il vero, la pochezza mia, e il mio rispetto verso tutti gl' interpreti del gran poema mi avrebbero fatto desistere dal mio proposito, se il rispetto per essi non fosse stato vinto da quello per il sommo poeta, cui mi parea fare troppa ingiuria col conchiudere, che egli avesse gittato là quelle parole quasi a casaccio, o per necessità di rima.

Al primo prendere tra mani l'opuscolo, il lettore non si sgomenti della mole, come sproporzionata all' argomento.

Un lavoro non prolisso, ma piuttosto lunghetto mi parve necessario a rispondere a tante obiezioni, a chiarire tante difficoltà, a confutare tante idee, che i secoli e i dantisti hanno addossato a questo povero verso, che è davvero in pericolo di restarne sepolto.

Ora se vuolsi dipanare questa matassa, resa arruffatissima dai troppi sforzi per quanto lodevoli — di coloro i quali, non avendone in mano il bandolo, ma altri capi, hanno contribuito ad intricarla, si richiede non poca fatica e pazienza da parte di chi scrive, non meno che di chi legge, ed una benevola attenzione,

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scevra da ogni contraria prevenzione, e letterario pregiudizio.

Chi potrà accusarmi di soverchia lunghezza in un lavoro, che vuole abbattere questioni e pregiudizi di ben sei secoli ?

Io ho provato. Se sono riuscito, ne giudicherà chi avrà pazienza bastante per leggermi.

§. II

Senso generico del verso

Intorno al senso generico del noto verso non ci fu mai, nè vi può essere dubbio veruno. Tutti gli spositori e gl' interpreti sono concordi nel dire, che in quelle parole si contiene una minaccia, un divieto, una ammonizione, o qualche cosa di simile.

Infatti ad ogni cerchio, prima di essere ammessi alla città di Dite, i due poeti trovano un custode, un guardiano che intima loro di tornare indietro, cercando

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d'impaurire il povero Dante, cui già tremavano pur troppo le vene e i polsi. Tutte le proteste si vincono da Virgilio, come nel caso presente, ma, ciò nondimeno, tutte le sentinelle infernali sono fedeli alla consegna.

La qual cosa incominciamo a vedere fino dal bei principio, quando tre belve a una a una, cioè la lonza, il leone e la lupa tentano d'impedire il cammino al poeta ma sopraggiunge Virgilio a trarlo di pericolo. (INF. C. I).

Di poi, al passo del fiume Acheronte, Caron dimonio grida addosso a Dante:

E tu che se' costi, anima viva,

Partiti da cotesti che son morti.

E Virgilio, divenuto ora la guida dello smarrito

poeta, quieta Caronte, dicendo:

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Anche Minosse, giudice dei trapassati, all' ingresso del secondo cerchio si adopera con grida e minacce d'impedirgli il passaggio:

O tu che vieni al doloroso ospizio,
Gridò Minds a me, quando mi vide,
Lasciando l'atto di cotanto uffizio,

Guarda com' entri, e di cui tu ti fide;
Non t'inganni l'ampiezza dell' entrare.
Interviene di nuovo Virgilio:

E il duca mio a lui: Perchè pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
Vuolsi così colà dove si puote

Ciò che si vuole, e più non dimandare.

INF. C. V.

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rito

Nel terzo cerchio, il cane Cerbero pare che abbia avuto anch'esso la consegna di non lasciar passare anima aiva; e caninamente latrando cerca arrestare i due poeti:

Quando ci vide Cerbero, il gran vermo,
La bocca aperse, e mostrocci le sanne;
Non avea membro che tenesse fermo.

FIRENZE-TIP. MIN. CORRIGENDI

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