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specialmente al su nominato Callimaco ed a Fileta, per l'abbondanza degli spondei, e per la frequenza di principii spondaici, ed anche per le chiuse di una, quattro e cinque sillabe, come fu già osservato. Di guisa che assai bene fu scritto che Properzio, tratto dallo studio e dall'amore degli esemplari greci, per non dire che neglesse l'arte metrica latina, certo non la fece progredire, come si conveniva ad un successore di Tibullo (1). Per età succedette a Tibullo, per l'arte metrica a Catullo. Invece Tibullo fu il primo fra gli elegiaci che, secondo l'espressione dell'Hultgren (2), svestisse il pallio per indossare la toga: la sua musa, lasciate le orme dei greci, ha un andamento tutto originale; ne' suoi carmi trovi dappertutto spirito e sensi romani (3). Per ciò che si riferisce all'arte metrica, Tibullo contribuì sommamente alla sua perfezione col porre in capo all'esametro molti dattili, dando perciò al verso una forma dattilica e rimovendo quella gravità che ha luogo ne' principii spondaici. Se non fossero andati perduti i carmi di Gallo, di Valgio Rufo, di Varrone Atacino, potremmo vedere un siffatto studio, di rendere il distico più elegante e meno uguale al greco, comune anche a que' poeti. E perchè ciò? Perchè al tempo di

(1) Hultgren, op. cit., p. 24.

(2) Pag. 17.

(3) Baehr, Storia della letteratura romana, tradotta da T. Mattei, Torino, Unione tipografico-editrice, 1878, vol. I, p. 355.

Augusto i Romani, già da lungo tempo educati alla scuola de' Greci, s'erano talmente inoltrati nella via della civiltà, da non più aver bisogno della guida del maestro: una volta ricevuto l'indirizzo, s'incamminarono per la via regia dell'arte seguendo le loro inclinazioni speciali e modificando man mano tutto ciò che dal maestro avevano appreso, sempre quando a quelle non si conformasse e non corrispondesse ai loro principii artistici.

Ci offre una riprova di ciò Ovidio, il quale chiude la serie dei grandi elegiaci del secolo d'Augusto. Studiando attentamente questo poeta, si traggono molti utili ammaestramenti spettanti all'arte metrica, i quali qui passo sotto silenzio, contentandomi di notare com'egli, per consenso universale de' critici, tiene fra i poeti elegiaci il principato nella metrica composizione, avendo liberato affatto dai vincoli dei Greci il distico latino e resolo veramente degno di tal nome, tanto da meritare che di lui scrivesse un illustre cultore degli studi metrici, Luciano Mueller : « Ouidius nouae auctor artis plerasque ueterum licentiarum, quae mixtae erant Latina proprietate et Graeca, dum recidit, pariter elegantiae et libertati prospexit. - hunc igitur uirum, qui principatum haud dubie tenet artis Latinae, ueneremur, hunc imitemur. hic sciat se plurimum profecisse, cui plurimum probetur Ouidius. huius quot sunt uersus, totidem sunt artificia, quouis Phidiae illa uel Praxitelis opere non minora. et, quod semper est perfectae indolis poeticae, cum

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sentias artem inesse summam, laborem persentiscis nullum (1) ».

Questo liberarsi de' poeti Romani dalle pastoie dei Greci, pur seguendone l'indirizzo e gli esempi, appare altresì in Orazio, il quale, mentre fa suoi molti fra i loro metri lirici, vi spira per entro un soffio nuovo di vita seguendo il legittimo progresso dell'arte e l'indole propria dell'ingegno e della lingua romana (2), e lasciò spesso di lunga tratta dietro di sè nella metrica perfezione i suoi modelli, introducendo una più stabile norma nella quantità, nella cesura, nel ritmo, nelle elisioni, per modo che la strofa oraziana è una delle più perfette creazioni dell'arte (3). Prendiamo a riguardare per poco l'organismo metrico della sua strofa alcaica, di questa forte ed energica strofa (4) che, a detta del Chiarini (5), è una delle creazioni più mera

(1) De re metrica poetarum Latinorum praeter Plautum et Terentium, Lipsiae, MDCCCLXI, p. 408, 409. (2) L. Mueller, op. cit., p. 92.

(3) G. Trezza, Le Odi di Orazio Flacco, pubblicate secondo i migliori testi con un commento, Firenze, Successori Le Monnier, 1872, p. 84.

(4) Dieselbe (alcaeische Strophe) zeichnet sich durch Kraft und Energie aus. Vedi L. Mueller, Metrik der Griechen und Römer, Leipzig, 1880, p. 24, e Carlo Ottofredo Müller, Istoria della letteratura greca, trad. da G. Müller ed E. Ferrai, Firenze, Le Monnier, 1858, vol. I, p. 279: "la strofa alcaica fu quella che regolarmente prevalse nei canti politici e guerreschi e in tutti quelli nei quali dominavano virili passioni

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(5) I critici italiani e la metrica delle Odi barbare, Prefazione alle Odi barbare di G. Carducci, p. CXLII.

vigliose della metrica antica, con quel maestoso incedere dei primi due versi, in cui il grave ordine dei giambi apre quasi l'adito d'un tempio ; con quel loro sollevarsi per mezzo del dattilo e discendere modicamente nel breve ordine logaedico; con quella ripetizione energica dell'endecasillabo; con quella gravità infine del dimetro giambico ipercatalettico che si risolve nel decasillabo finale in una chiusa pacata e tranquilla (1). Mettendo a riscontro la strofa alcaica. dei poeti di Lesbo con quella di Orazio, si osserva subito una differenza notevole ne' due primi versi, differenza che rivela la maggiore gravità del metro romano; in quanto che, laddove Alceo e Saffo non dividevano, o raramente, in due parti l'endecasillabo mediante la cesura, Orazio ed i poeti latini a lui posteriori indicavano per mezzo della regolare cesura dopo la quinta sillaba la composizione del verso di due pentemimeri, ossia di due ordini quinari, per così dire, l'uno giambico e l'altro logaedico (2). Di più Orazio, per la solita ragione della maggiore gravità, nei primi due versi terminò sempre il primo ordine con una tesi lunga e fece generalmente lunga l'anacrusi (3). Non enumero altre differenze, per non prolungare di troppo il mio discorso.

(1) Frid. Vil. Graser, De stropha alcaica, Magdeburgi, 1865, p. 17.

(2) Christ, op. cit., p. 548.

(3) G. Hermann, Elementa doctrinae metricae, Lipsiae, CCCCXVI, p. 690.

Ma, per venire ad una parte capitalissima negli studi metrici, dove si può meglio vedere la stretta relazione che passa tra il verso ed il pensiero che se ne riveste, è nella disamina delle differenze interposte tra la metrica antica e la versificazione moderna, differenze prodotte non da arbitrio fantastico de' poeti, ma da ragioni naturali risiedenti nell'evoluzione stessa del pensiero e delle sue forme. È uno dei più belli e proficui studi, come quello che si connette colla storia della rovina della civiltà pagana, del sorgere, estendersi e prevalere del cristianesimo e delle forme di vita da lui determinate. Non è qui il caso di fermarsi sulle cause donde procedette quella grande rivoluzione intellettuale e morale, che, cospirando con parecchie altre d'ordine diverso, portò la dissoluzione e la rovina non pur della civiltà greco-romana, ma dello stesso impero. Io m'appagherò di accennare appena a qualche influenza che esercitossi sovra gli spiriti trasformandone il pensiero ed i suoi mezzi di esplicazione. E innanzi tutto è mestieri completare ciò che già si è detto, dichiarando quali sieno i caratteri essenziali del verso antico, per compararli poi con quelli del moderno e mettere in rilievo quanto abbiano di comune e quanto di proprio.

Si è già osservato che base dell'antica versificazione è la quantità, e non l'accento grammaticale, il quale, come s'è veduto, talvolta s'accordava, ma più spesso, specialmente nei versi greci, si trovava in conflitto con quella. Or come

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