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nelle quali l'uno e l'altro fiorirono, si ponga mente.

Combattuti i contrarj argomenti, passa l'A. a riflettere, che il vero assunto della opinione, ch'ei confuta, quello essendo di stabilire, non solo essere le Dodici Tavole dalle leggi di Solone dissimili, ma a quelle affatto contrarie, gli è mestieri coronar la sua tesi col render dimostrato 1o. non essere stata mente di Livio affermare, che tutte le leggi di Solone fossero nelle Dodici Tavole trasfuse. 2o. non esser vero, che i Dieci in alcune cose le leggi di Solone e di altre greche città non imitassero.

Sebben possa credersi esagerato non poco quanto e Crasso e gli altri vociferarono della eccellenza delle leggi di Numa e de' Dieci, è d'uopo pur convenire, che una non comune saviezza andasse a quelle leggi compagna. Questa sola riflessione obbliga a tenere quasi una via di mezzo nella questione storica dall' A. discussa, e non tutto o a un' assoluta originalità, o a una greca filiazione di quelle leggi

concedere.

Cicerone e Livio non dicono essere state le Dodici Tavole in tutto tolte dalle attiche leggi, ma osservano essere esse quasi un miscuglio felice delle leggi della natura, dell'antico Ro. mano diritto, delle leggi attiche, e delle costumanze di altre greche città.

Livio ammette la Romana ambasciata in Grecia: ne ammette il ritorno a Roma colle leggi dell'Attica, ma non dice, che quelle leg. gi fossero nelle Dodici Tavole poi interamente trasfuse. Che i Dieci usassero di gran libertà nel compilar le lor leggi è comprovato dall'ar

ringa, con cui essi al popolo le proposero: dimodochè se invalse poi la opinione, che le Dodici Tavole fossero una traduzione di greche leggi, non a Livio, ma a Pomponio, che così scrisse, bisogna farne rimprovero. Nè dee recar meraviglia che i giuristi della età meno culta più familiari con Pomponio che con Livio la opinione di quello ciecamente seguissero.

Non può revocarsi in dubbio che più o meno i Dieci nel formare le Dodici Tavole attingessero dalle leggi di Solone, conciossiachè ne attinsero, come Cicerone conferma, i suntuarj regolamenti su i funerali: attinsero dai Tebani la proibizione delle feste notturne: greca era la legge che moderava le spese de' popolari ricreamenti; tale finalmente quella che tra i patrii riti gli ottimi volea coltivati .

Tutte queste considerazioni guidano l' A. a concludere 1o. non vi essere critico ostacolo a creder vera la Romana ambasciata in Grecia: 2o. non essere stato scritto da Livio, che le leggi di Solone fossero tutte nelle Dodici Tavo-, le trasferite: 3°. essersi i Dieci giovati delle leggi di Atene, e di altre greche città.

Qualunque esser possa la particolar nostra opinione in questa critica controversia, esige la giustizia da noi, che essa a due sommi capi riducasi nel compiere di render conto dell' opera dell' emerito nostro Collega. Primieramente in ogni aspetto giustissimo è il rimprovero, che egli fa all'Autor confutato, di parlare con leggerezza soverchia di autori, a pro dei quali sta il suffragio di tanti secoli, e in special modo di Livio, aggiungiam noi, il

quale nel suo proemio con tanta candidezza d'animo, con tanta lealtà e con tanta critica saviezza parlò di quanto avean d'incerto i monumenti, che doveano alla sua storia servir di base. In secondo luogo l'A. ha con tanta acutezza d'ingegno, con tanta e sì scelta erudizione trattato e discusso l'argomento suo, che qualunque esser mai possa il destino della controversia che occupò la sua penna, egli ha bene il diritto di gloriarsi dicendo

Si Pergama dextra Defendi possent, etiam hac defensa fuissent.

C.

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TRAGEDIE D'ESCHILO tradotte da Felice Bellotti. Milano dalla Società tipografica de' classici italiani. 1821 T. I. in 80.

Come prima si vide comparire alla luce la bella traduzione di Sofocle del Signor Felice Bellotti, destossi in molti il desiderio che un simile officio da lui si rendesse ad Eschilo. Questo desiderio è ora adempiuto; e il plauso che gli si dee per questa nuova sua fatica non è certamente minore di quello ch'egli ha già riportato per la prima. Lo dirò anzi maggiore, quanto maggiore è la difficoltà che s'incontra nel volgarizzar questo tragico. Io non parlerò delle utili novità, che Eschilo introdusse sulla scena; non de' suoi pregi nella condotta, nei caratteri dei personaggi, o in altrettali cose, che nè giovano, nè nuocciono al traduttore. Parlerò piuttosto dello stile: Tragoedias, dice Quintiliano, primus in lucem Eschylus protulit, sublimis et gravis, et grandiloquus sæpe usque ad vitium, sed rudis in plerisque et incompositus. Inst. Lib. 10. Cap. I. E la magniloquenza gli attribuiscono pure Orazio nella Poetica, e S. Basilio in una lettera a Martiniano. Ma vi sono anche i vizj che mordacemente, secondo il suo costume, furono derisi da Aristofane nelle Rane. In fatti e gli epiteti non rade volte sono strani, e le metafore soverchiamente ardite, e spesso oscura la frase. Per le quali cose molto esser deve imbarazzato il traduttore, che vuole esser fedele intelligibile, nè farsi ridicolo con modi stravaganti. A gran ragione il Le Fevre nelle vite dei

Poeti Greci parlando d'Eschilo disse, sans faire violence à notre langue il est impossible de représenter par aucun exemple francois la hardiesse de ses épithètes. E poteva dire lo stesso di alcuni de' suoi concetti; talchè non mi è avvenuto di leggere alcuna traduzione francese, che mi satisfaccia. La nostra lingua più ricca, più atta alla poesia, più ardita, offre minori difficoltà. Tante però ne rimangono anche per noi, che per questa ragione forse pochi si accinsero a tanta impresa. Marc' Antonio Cinuzzi sanese volgarizzò il Prometeo nel secolo decimosesto, ma nulla possiamo dire della sua traduzione, che non fu impressa mai, e solamente ritrovasi manoscritta nella Vaticana, come dice il Fontanini (1). La stessa tragedia recarono poi in Italiano il Giacomelli, il Cesarotti, e il Pasqualoni, e l'ultimo vi aggiunse i Sette a Tebe. Ma questi solamente procacciarono solo d'esser fedeli, nè si bri garono punto d'accostarsi quanto era possibile alla sublimità dell' originale. Può dirsi pertanto che il sentiero non era anche aperto. Il Signor Bellotti si è messo all'impresa, e l'ha condotta a fine in modo degno del traduttore di Sofocle.

La prima cosa, che dee fare un traduttore è lo scegliere un buon testo, il che egli ha fatto prendendo l' edizione dello Stanlejo, e giovandosi di quelle del Butler, del Blomfield; e della terza dello Schütz, non meno che delle osservazioni di parecchi filologi sparse in altri libri. Util cosa avrebbe fatta, se gli fosse

(1) Bibl, dell' Eloq. It. T¿I. p. 536. ed. 1803.

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