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dimento del Pubblico, ed io scrivo per avere il vanto di meritarmi il vostro, o Miledi.

Ad onta della poco buona prevenzione che avete per Dante, io voglio credere, che sarete persuasa, che non sia sprovveduto affatto di meriti. Voi sapete pure com' egli alzò un gran concetto fino da' primi tempi, e per consenso universale fu distinto dalla turba comune de'poeti. Io non voglio adesso dare un gran peso al titolo di Divino, di cui fu decorato; perchè questo titolo perde molto del suo splendore per l'abuso che se ne faceva in que' tempi, dove si concedeva l'apoteosi a' poeti così a buon mercato come una volta agli Imperatori. Ma voi dovete certo ammirare un uomo, che nato in secoli rozzi e buj, con la sola scorta del suo genio fu il primo a sollevare il nostro idioma dalla barbarie oscurissima in che giaceva. Innanzi che egli scrivesse il suo poema esso non era di fatto che un gergo povero ed ignobile, che non veniva coltivato che per la necessità, che aveano gli uomini di farsi intendere con le parole. Ne libri si prediliggea la lingua Latina, e l'italiana si reputava indegna di comparir sulle carte, se si eccettui qualche scrittura di poco momento. Sorsero poscia alcuni poeti, che furono i primi a sollevarla a qualche grado d'onore adottandola ne' loro canzonieri amorosi. Essi di fatto erano più di tutti nella necessità di valersi di questo dialetto, poichè sarebbero stati poco ascol tati dalle loro Belle se avessero voluto spiegare

i loro tormenti in un'ode, o in un' elegia latina. Ma la lingua non potea fare grandi avanzamenti sotto la loro penna, poichè tutti i loro componimenti si aggiravano sopra uno stesso soggetto, che non dava luogo a varietà di espressioni e di stile. Essi non sapeano far altro che esaltare le trecce bionde, le mani d'avorio, lamentarsi della crudeltà di Madonna, ed informare tutto il mondo de' loro martiri.

Uno de' primi che abbia cominciato a scostarsi da questi triti argomenti fu un certo Brunetto Latini Fiorentino. Costui scrisse un libro in versi rimati di sette sillabe, chiamato il Tesoretto. Egli non ebbe già intenzione di pubblicare un tesoro di poesia, ma di scienza. In esso raccolse tutto quello che si sapeva a que' tempi, che per verità era assai poca cosa, ma però abbastanza, onde potesse riuscire a formare uno zibaldone. La geografia, l'astronomia, la storia naturale, la storia sacra e profana, ogni parte di filosofia, la teologia, trovano luogo alla rinfusa in quel volume. È facile l'avvedersi come un uomo di un gusto così barbaro non può essere il favorito delle Muse, e che l'argomento che imprese a trattare non è capace di essere adornato da' fiori della poesia. Egli in effetto non avea orecchio punto armonico, i suoi versi sono rozzi, aspri, e senza numero, nè si distinguono per versi se non in quanto alla rima. Non vi parlerò del suo Pataffio, che è un'altra opera tessuta di proverbj, dove pare che abbia messo tutto lo studio a non farsi

intendere da nessuno, e forse neppur da sè stesso, e che non è prezzato che da coloro, che cercano la rarità più che la scienza ne' libri. Eccone i primi versi:

Squasimodeo, introcque, e a fusone

Ne hai, ne hai pilorcio con mattana ;
Al can la tigna, egli è mazzamarrone.

In tale stato si trovava la poesia Italiana, quando negli anni mille e trecento e uno Dante die'cominciamento al suo poema. Nacque egli nel 1265, e Brunetto Latini fu appunto suo precettore. Egli possedeva in alto grado tutte le qualità che mancavano agli altri poeti; spirito pensatore, vivace fantasia, ed occhio finissimo osservatore della Natura. Siccome era fornito di un' anima più di qualunque altro sensibile, e che la lingua nello stato in cui la trovò non era sufficiente, ond' egli potesse esprimere tutti i suoi concetti, così dovette essere in necessità d'inventare maniere di dire, frasi e parole non più tentate. Egli non si fermò già ne'soggetti amorosi, o in qualche altro sterile argomento, ma scrivendo un poema, a cui, com'egli dice, ha posto mano cielo e terra, e dove descrisse a fondo tutto l'Universo, abbracciò la Natura in tutta la sua estensione, e la rappresentò al vivo in tutti gli aspetti.

Malgrado la stima che ho per questo poeta, e che cerco d'insinuare anche in voi, non crediate però che io voglia prodigalizzare l'incenso,

ed adorare persino i suoi difetti. Sono i comentatori che trovano tutto ottimo, e tutto prezioso ne' loro autori, e che hanno il privilegio di vedere l'oro nel fango. Converrebbe essere molto appassionato per Dante, acciò che dovessero piacere tanti vocaboli barbari inventati a capriccio, e tante espressioni oscure, che non di rado s'incontrano ne' suoi versi. Non vi può essere niente di più stravagante di quelle parole: Pape Satan, Pape Satan, Aleppe; Rafel mai amech zabi almi; Tabernich, Austerich, crich. Siccome questo poeta mostrava nel suo trattare un carattere sprezzante, ed uno spirito d'indipendenza, così volle affettarlo altresì ne'suoi scritti. Egli si vantava di essere padrone assoluto di dire ciò che gli piaceva. Solea gloriarsi, che la rima non gli fu mai d'ostacolo per ispiegare ciò che volea: quindi introdusse a bella posta ne' suoi versi stranezze ed irregolarità.

Si vede chiaramente, che Dante si servi di questi bizzarri vocaboli per solo capriccio, non perchè avesse un gusto così stravolto che li approvasse per buoni. Si osserva che le rime, che compose in sua gioventù, quando non volea ancora darsi un'aria di singolarità, sono nobili, vivaci, e senza ombra di que'difetti, che si riprovano nel poema. Così nelle Opere fatte da più attempato tiene in materia di stile principj del tutto opposti a quelli che avea già messi in pratica. In un suo libro della Volgare Eloquenza egli avverte, che chi vuole scrivere in istile alto

si astenga dalle parole Mamma o Babbo, e persino da quelle di greggia, femmine, e corpo, alcune delle quali, egli dice, sono puerili, ed altre contadinesche. Così viene ad accusare sè stesso, che nel poema avea usate queste medesime parole di mamma, babbo, con l'altre di nanna, dindi, e simili appena degne del più basso comico. Parmi tuttavia, che in quel suo libro della Volgare Eloquenza si sia poscia mostrato un po' troppo scrupoloso condannando voci, che niuno avrebbe riguardo di adoperare in qualunque stile, quali sono quelle di greggia, corpo, ec. Egli ha fatto come coloro, che essendo stati discoli ne' loro fresch'auni, diventano bigotti in vecchiaja.

Molte per altro di quelle voci, che a noi sembrano rozze ed antiche, non erano tali per le persone del suo tempo. Uno storico Fiorentino contemporaneo a Dante, detto il Villani, commenda assai la Divina Commedia come un poema dettato in pulita rima. Così da alcune Novellette di Franco Sacchetti, il quale scrisse nel secolo stesso, si raccoglie ch'era cantata per le strade daʼmulattieri, nel modo che si canta il Tasso da' gondolieri per le lagune di Venezia. Questo mostra com'essa era assai più popolare, e molto più intesa che non è al presente. Ma col cangiare degli anni cangiano pure le lingue, e le voci invecchiano anch'esse. Così presso i Francesi i versi degli antichi Trovatori, che formavano una volta la delizia del popolo, adesso non sono intesi senza studio. Voi sapete pure, Mi

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