Quella che piange dal destro è Aletto; Tesifone è nel mezzo: e tacque a tanto. Con l'unghie si fendea ciascuna il petto: Batteansi a palme, e gridavan si alto, Che al poeta mi strinsi per sospetto. Inf. IX. 34. Queste furie che stavano s'una vedetta a far sentinella aveano in mano il teschio di Medusa, che trasmutava in pietra chiunque il guardava. Virgilio avverti Dante, che si chiudesse forte gli occhi con le mani, anzi egli stesso per maggior sicurezza vi addoppiò le sue. E già venia su per le torbid' onde Un fracasso d'un suon pien di spavento, Per cui tremavan ambedue le sponde, Non altrimenti fatto che d'un vento Impetuoso per gli avversi ardori, Che fier (1) la selva, e senza alcun rattento Li rami schianta, abbatte e fronde e fiori: Dinanzi polveroso va superbo, E fa fuggir le fiere e gli pastori. Inf. IX, 64. E non par egli a questa lettura di essere trasportato nella città di Dite, di entrare per quelle porte roventi, di sentire gli urli delle Furie, lo scroscio del fiume infernale, e il sibilo de' venti? (1) Ferisce. Niuno riusci quanto Dante a descrivere l'Inferno con più energia, e con maggior terrore, benchè questo argomento abbia esercitato la penna de' più celebri poeti. Virgilio nell'Eneide, ed Omero nell'Odissea ne parlano a lungo: nei loro quadri si ravvisa subito la mano maestra, nè si saprebbe supporre che dalla loro penna niente di mediocre potesse uscire in un tema così sublime: tutto quello che dicono è bello, ma non dicono quanto Dante, nè fanno sull'anima de' lettori un'impressione così forte. Questo nasce non solo dalla maniera particolare con cui Dante espone le cose, ma vi ha molta parte la diversità del soggetto medesimo. L'Inferno degli antichi era assai differente da quello di Dante e de' Cristiani. Questo è molto più terribile, e dalla fantasia de' poeti è capace di essere vestito d'immagini più tetre e più spaventose. Gli antichi aveano certi punti fissi e comuni intorno a cui si trattenevano; comparivano sempre in iscena que' loro Tantali, que' Tizj, i Sisifi, le Danaidi, cose ripetute tante volte e già addomesticate dall'uso. Inoltre le descrizioni che faceano dell'Inferno non si aggiravano sempre intorno idee di lutto, poichè nello stesso luogo metteano il loro Paradiso, ch'erano quelle amene campagne, dove si tratteneano i beati: così dopo avere descritto i tormenti e gli strazj che soffrono i malvagi, escono fuori co' giardini di Plutone, con le delizie delle selve Elisie, co' poggi, co' valloncelli per dove erravano le anime dei buoni. Vedete in qual maniera Tibullo rappresenta l'Inferno, ch'è ben differente da quello che annunziano i nostri Predicatori. Vi parla al solito di Cerbero, d'Issione, di Tizio, poi vi descrive le pianure degli Elisi, dove i morti si trattengono in canti e in balli. Queste pianure sono sparse qua e là di boschetti di acacia dove si sentono gorgheggiare gli augelletti, e tutto all'intorno sorgono odorosi cespi di rose. Folte schiere di giovani e di donzelle con le chiome coronate di mirto scherzano e folleggiano per que' prati; e benchè sciolti da ogni qualità umana non sono già insensibili agli stimoli dell'amore, che stende il suo impero anche nella regione de' morti. Così gli antichi più voluttuosi di noi altri, e che godevano più allegramente i piaceri della vita presente, non voleano troppo conturbarsi con le immagini funeste della futura, e pare che mettessero gli Elisi presso al Tartaro, per render, in certo modo, meno tetro l'orrido di quel soggiorno. Ma mentre Dante e Virgilio sono spettatori di scene così terribili presso di Dite, videro inoltrarsi uno, che venia su per l'acqua a piante asciutte, dinanzi a cui fuggivano a precipizio gli spiriti dannati. Egli non mostrava noja di niente altro, che di quell'aere crasso, che si rimovea dal viso, menando innanzi la mano. Questi era un Angelo, che calò dal Cielo per aprire Virgilio la porta, che gli fu chiusa in faccia dai demonj. Pieno di stizza die' d'un colpo di a bastone nell'uscio e lo spalancò, si fermò sulla soglia, e con gran collera minacciò que' diavoli, perchè trattarono Virgilio così villanamente, e s'opposero al voler del Cielo. Poi si rivolse per la strada lorda, E non fe' motto a noi, ma fe' sembiante Mostra con ciò il poeta che l'Angelo, il quale non avea ancora gli spiriti in calma pel gran rabuffo che diede a' demonj, non badava a chi lo seguiva. Questo è uno di que' tratti fini, che Dante era sopra tutto eccellente nel saper cogliere. Non vi è circostanza, oggetto, o azione per minuta e rara che sia ch'egli non rappresenti con somma facilità e con vivezza. In questo consiste la grande abilità de' poeti; poichè non v'è nessun merito mettere in vista quello che risalta agli occhi di tutti. Seguitando Dante il suo cammino entrò nella città infernale e mosse intorno gli occhi, curioso di vedere che cosa v'era là entro. Vide prima di tutto una pianura assai vasta, sparsa tutta quanta di sepolture che buttavano fuoco. I coperchi erano sospesi, e di là usciano i lamenti di coloro che si cuoceano in quelle fosse, ch'erano gli eresiarchi. Dante camminava ragionando con Virgilio, quando da uno de' sepolcri uscì una voce che gridò: Olà, Tosco; tu che vai vivo per la città del foco, fermati. Olà. Subitamente questo suono uscio D'una dell'arche; però m'accostai, Dalla cintola in su tutto il vedrai. Non gliel celai, ma tutto gliele apersi: Ond'ei levò le ciglia un poco in soso. E disse: Fieramente furo avversi A me, ed a' miei primi, ed a mia parte, Sì che per due fiate gli dispersi. S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogni parte (Risposi a lui) e l'una e l'altra fiata: Ma i vostri non appreser ben quell'arte (1). Allor surse alla vista scoperchiata (2) (1) Cioè, l'arte di tornare. (2) Alla vista aperta, cioè fuori del coperchio del sepolcro. |