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po semplice, l'anima non può ricevere vigorose impressioni, langue, intorpidisce, ed alla indifferenza succede presto la noia. Così un quadro che non rappresenti che paesetti e belle vedute ci trattiene assai meno di un quadro storiato, che tanto più interessa, quanto più vi prevale l'espressione e il sentimento.

Questa è dunque la ragione perchè la storia di Francesca d'Arimini ha incontrato l'aggradimento comune a preferenza di molti altri pezzi immaginosi e sublimi della divina Commedia. Ma d'altra parte mi maraviglio assai come il signor da Polenta sia stato così grande amico di Dante, e l'abbia ricevuto con tanta distinzione presso di lui, dopo che egli con questi versi avea resi pubblici gli amori incestuosi di sua figlia, e che l'avea messa fra le anime dannate. Se non che Dante tratta questa avventura con molta delicatezza, e forse quel Principe era persuaso, che si dovesse far poco conto delle sue sentenze di dannazione.

Alla patetica scena che vi ho presentato io voglio opporne un'altra di un gusto diverso coi versi seguenti che succedono immediatamente ai già citati :

Al tornar della mente che si chiuse
Dinanzi alla pietà de' duo cognati,
Che di tristizia tutto mi confuse,
Nuovi tormenti, e nuovi tormentati
Mi veggo intorno come ch'io mi muova,
E come ch'io mi volga, e ch'io mi guati.

Io sono al terzo cerchio della piova
Eterna, maladetta, fredda e greve;
Regola e qualità mai non l'è nova.
Grandine grossa, e acqua tinta, e neve
Per l'aer tenebroso si riversa:

Pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa
Con tre gole caninamente latra

Sopra la gente che quivi è sommersa.
Gli occhi ha vermigli e la barba unta ed atra,
E'l ventre largo, ed unghiate le mani:
Graffia gli spirti, e gli scuoia ed isquatra.
Urlar gli fa la pioggia come cani :

Dell'un de' lati fanno all'altro schermo:
Volgonsi spesso i miseri profani.

Inf. VI. 1.

Dove Dante descrive Cerbero che graffia gli spirti, e gli scuoia e gl' isquatra, la stentatezza del verso che nasce dall'accozzamento di consonanti aspre dipinge a maraviglia l'accanimento di quella bestia istizzita. Così il poeta per via di una spezie di melodia fa sentire all'orecchio quanto rappresenta alla fantasia con le parole. Questa armonia imitativa è oggidì molto in voga presso i poeti, e tutti vogliono farne pompa, senza riflettere che tali delicatezze debbono presentarsi spontaneamente allo spirito in momenti propizj all'estro, altrimenti vi si scorge chiaramente l'elaboratezza e l'affettazione. Ma in questi tempi in cui si fanno tante analisi e specu

lazioni su quella che chiamano Metafisica del Gusto, in cui tutti si piccano di voler procedere in ogni cosa per via della conoscenza de' principj, si cerca di attingere con l'arte e con lo studio a quelle grazie, ed a quelle finezze riserbate solo a coloro che più degli altri sono prediletti dalle Muse. Certo è che nè Omero, nė Virgilio, nè Dante quando scriveano di questi versi non pesavano le sillabe, nè contavano le lettere, come facea il vostro Cowley, che si vantava di essere il primo fra gli inglesi a comporne, e per riuscirvi ne slogava con ricercatezza gli accenti, onde incorse in mille ridicolaggini. Du Bartas, poeta francese, si pregiava anch'egli di avere quest'abilità, ed è noto quel suo emistichio

Le champ plat bat, abbat,

Dove descrive un cavallo in corso. Così Lorenzo de' Medici dovette andare glorioso di aver detto, parlando di un incendio:

Fumo e faville e stran stridor l'aria empie.

Io potrei citarvi molti altri esempj e moderni e nostrali di tai caricature, poichè adesso, come vi diceva, i poeti sono molto vaghi di questa armonia imitativa, e cercano introdurla da per tutto, e vogliono vederla anche dove non vi è. Gertuni, per esempio, non dicono acqua, che non la sentano diguazzar per la bocca, nè proferiscono serpente, che nol veggano strisciar via,

né sanno nominare la guerra, che la parola stessa non risvegli loro in mente l'idea di un non so che d'orrido e di funesto. Ma il fatto è che basta avere la prevenzione di trovare ne' vocaboli questi rapporti, che si vede subito tutto ciò che si vuole; nello stesso modo, che ascoltando il suono delle campane si fa loro dire tutte le parole che vengono alla fantasia.

Se volete però, Miledi, veri esempi di questo genere di bellezze, più che in qualunque altro poeta ne incontrerete in Dante fra i toscani, e fra gli antichi in Omero. Ma poichè alle Muse greche non vi piacque fare quell'onore che avete fatto alle Italiane, col permetter loro l'accesso presso di voi, potete consultare la bella versione dell'Iliade, che ha scritto il Pope nella vostra lingua. Egli ha saputo conservare tutti questi vezzi, che sfuggono sotto la penna di un traduttore men destro, ed investirsi di tutto l'entusiasmo di Omero; e senza mostrare una pedantesca ostentazione di volerlo lo susuperare, pera di fatto molte volte, e per gran tratto gli vola dinanzi. Ma io vi dico cose, sulle quali potrei essere con più ragione istrutto da voi. Adesso che vi trovate in Italia, e che avete vaghezza di non avere tra mano che libri italiani, invece di quella di Pope, potrete leggere la traduzione che ne fece in toscano l'ab. Cesarotti, che ha un sentimento delicatissimo per conoscere l'espressione musicale de' versi di Omero. Egli pretende anzi ch'essa sia così spiccata, e così sen

sibile, che possa fare impressione anche su coloro, che, senza intendere la lingua, leggessero i versi greci, ed in grazia di costoro ne trascrive parecchi con le lettere del nostro alfabeto. Ma siccome questa espressione musicale dipende in gran parte dalla posizione degli accenti che danno regola alla voce di chi recita, e che egli non si prese la briga di segnarne niuno su que' versi, così non so come potrà trovarvi armonia chi non sa leggerli. Queste bellezze si possono cercare bensì con miglior successo nella sua versione, che è disinvolta e briosa, ed animata da tutti gli spiriti della poesia. Nè potranno oscurarne il merito i clamori di alcuni critici, che lo tacciano di aversi scostato troppo dall'originale; questioni, che non debbono avere più luogo quando il traduttore si protesta chiaramente, com' egli fece, che non è sua intenzione di voler dare una versione esatta, nè letterale. Alcuni altri poi trovano che il suo verseggiare sia in certi luoghi troppo stemperato nel numero, come se mancasse di quell'andamento nobile e grave, che richiede l'Epica, e che la cadenza uniforme de' suoi versi troppo spesso rotti e dimezzati stanchi alle volte e sazii l'orecchio. Tal altro pretende che in molti passi vi si manifesti troppo apertamente l'ambizione e lo sforzo di voler brillare con l'espressione meccanica del verso, e sorprendere il lettore con de' quadri; come sarebbe, per via di esempio, nel diciotte

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