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600 Per superos atque hoc coeli spirabile lumen, Tollite me, Teucri, quascumque abducite terras; Hoc sat erit. Scio me danais e classibus unum, Et bello iliacos fateor petiisse penates.

Pro quo si sceleris tanta est iniuria nostri, 605 Spargite me in fluctus vastoque immergite ponto: Si pereo, manibus hominum periisse iuvabit. Dixerat et genua amplexus genibusque volutans Haerebat. Qui sit, fari, quo sanguine cretus, Hortamur; quae deinde agitet fortuna fateri. 610 Ipse pater dextram Anchises, haud multa moratus, Dat iuveni atque animum praesenti pignore firmat. Ille haec, deposita tandem formidine, fatur: Sum patria ex Ithaca, comes infelicis Ulixi, Nomen Achemenides. Troiam, genitore Adamasto 615 Paupere (mansissetque utinam fortunal) profectus. Hic me, dum trepidi crudelia limina linquunt, Immemores socii vasto cyclopis in antro Deseruere. Domus sanie dapibusque cruentis, Intus opaca, ingens: ipse arduus, altaque pulsat:

607. Genua amplexus Era in quei tempi il solito modo de' supplicanti..

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614. Achemenides. Personaggio creato da Virgilio; il suo nome indica la sua fortuna, perchè composto di due parolè greche significanti rimanere e dolore,

615. Mansisset. Assai meglio era il rimanersi in quella povera condizione che esporsi a tanti pericoli e soffrir tante sventure.

619. Pulsat sidera. Iperbole che non istà male in bocca quell' infelice ancor si spaventato e tremante.

Per 'li superni Dei, per questa viva
Luce che allegra il mondo, mi togliete
935 Vosco, o Troiani, ed in qualsiasi terra
M' adducete pietosi; altro non chieggo.
Io, ben lo so, fui della greca armata,
E mossi in guerra, nol nascondo, a' danni
Degl' iliaci penati. Onde, se in voi
940 È pel delitto mio tanto rancore,

Nei flutti mi sperdete, e nel profondo
Mi cacciate del mar; chè, se or finisco
Per la mano degli uomini, men dura

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Mi fia la morte. Egli, ciò detto, cadde
945 Alle nostre ginocchia, e le abbracciava
Implorando pietà. Noi lo esortiamo
A dir chi sia, di quale stirpe nato,
E qual fortuna lo persegua esporre.
L'istesso padre Anchise a lui la destra
950 Senza molto dubbiar porge, e con tale
Pegno lo rassecura; ed ei, deposto
Alfine ogni timor, così favella:

Itaca è la mia patria, ed il mio nome Achemenide; già m' ebbe compagno 955 Lo sciagurato Ulisse. A Troia venni Da povertà costretto in cui languiva (Oh in quell'umile sorte ancor vivessi!) Adamasto mio padre. Io qui nell'antro Del fier Ciclope, allor che si fuggiro 960 I miei compagni, immemori e confusi Per lo spavento, dal crudele ospizio, Abbandonato fui. Quella caverna È dentro oscura, vasta, e piena tutta

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Sidera (di, talem terris avertite pestem!) Nec visu facilis nec dictu affabilis ulli. Visceribus miserorum et sanguine vescitur atro. Vidi egomet duo de numero quum corpora nostro Prensa manu magna medio resupinus in antro 625 Frangeret ad saxum, sanieque aspersa natarent Limina: vidi atro quum membra fluentia tabo Manderet, et tepidi tremerent sub dentibus artus. Haud impune quidem: nec talia passus Ulixes, Oblitusve sui est Ithacus discrimine tanto. 630 Nam simul, expletus dapibus vinoque sepultus, Cervicem inflexam posuit, iacuitque per antrum Immensus, saniem eructans et frusta cruento Per somnum commixta mero, nos, magna precati Numina sortitique vices, una undique circum

621. Nec visu. Tale, interpretò l' Heyne, che njuno può sostenerne la vista senza costernazione.

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Ivi. Nec dictu. E Servio: si tremendo negl' impeti che non gli si può, senza pericolo estremo, dir parola,

623 idi egomet. Grande è certamente il ribrezzo e il disgusto che sentesi al leggere queste orribili scene; ma talvolta l'imitazione della natura richiede di simili descrizioni che pur sono sublimi in tutta la loro spaventosa crudezza. Anche Ovidio Lib. 14 Metam. fa dire al ciclope per bocca dello stesso Achemenide:

Se alcun posso afferrar della sua gente
Stracciarlo intendo e mille pezzi farne,
E godrò di sentir sotto il mio dente
Tremar la sua non ancor, morta carne.

631. lacuitque per antrum. Quintiliano adduce questo

Di sanie e di vivande sanguinose.
965 Egli d'altezza smisurata, e tocca
Col capo il cielo (de tal peste, o numi,
Liberate la terra!), e niun mirarlo

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Può senza gran periglio, o a lui dir verbo. Le viscere ei divora, e il sangue bee 970 Della misera gente. Io stesso il vidi Sdraiato in mezzo alla spelonca, due De' nostri arroncigliar colla gran mano, E ad un macigno sfracellarli, e il suolo S'inondava di sangue e di cervella; 975 H vidi maciullar membra di neras Tabe stillanti, e sotto i denti suoi c Tepidi i brani palpitar. Ma il fio Pagonne; chè tal cosa non sofferse Ne in tanta stretta fu l'Itaco Ulisse 980 Di sè stesso dimentico. Quand' egli De' cibi sazio e sepolto nel vino Tentennante piegò la testa, e giacque Corpo immane a traverso la spelonca Sanie eruttando, e a sangue e vin frammisti 985 Tozzi di carne, noi pregati in pria I grandi numi, e divisate a sorte bo Le veci, d'ogni lato intorno a lui

passo come un bell' esempio dell' Enfasi. È imitazione dall'Odissea, Lib. 9.

634. Sortiti vices. Determinando a sorte che cosa ciascuno dovesse fare nella tremenda operazione di acciecare il mostro.

635 Fundimur et telo lumen terebramus acuto Ingens quod torva solum sub fronte latebat, Argolici clipei aut phoebeae lampadis instar, Et tandem laeti sociorum ulciscimur umbras. Sed fugite, o miseri, fugite atque ab littore funem 640 Rumpite:

Nam, qualis quantusque cavo Polyphemus in antro Lanigeras claudit pecudes atque ubera pressat, Centum alii curva haec habitant ad littora vulgo Infandi cyclopes et altis montibus errant. 645 Tertia iam lunae se cornua lumine complent Quum vitam in silvis inter deserta ferarum Lustra domosque traho, vastosque ab rupe cyclopas Prospicio, sonitumque pedum vocemque tremisco. Victum infelicem, baccas lapidosaque corna, 650 Dant rami, et vulsis pascunt radicibus herbae.

636, Latebat. Quanto più elegantemente, dice Heyne, che erat! Par di vedere per lo stesso vocabolo insieme la fronte torva, le orride palpebre, e l'ispido sopracciglio.

637. Argolici clipei. Grande come gli scudi argivi che erano rotondi.

Ivi Lampadis. A guisa del sole; e vuole significarne così il rosseggiare infocato.

639. Sed fugite. Corre subito in mente l'obbiezione: se egli è cieco, perchè temere? Soggiunge tosto che quel ciclope non è il solo; ma altri cento colà se ne trovano.

1640. Rumpite. Non già sciogliete, come tradusse il Leoni, ma tagliate, rompete, come è naturale in chi ha grandissima fretta e paura."

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643. Vulgo. In molti luoghi, sparsi qua e là.

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