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Incominciata la stagion più bella,
Quando sciorre le vele il padre ingiunse
Ed al fato commetterci. Piangendo
Allora abbandonai le patrie rive,
Ed i porti ed i campi ove fu Troia;
In alto mare io sono esule spinto
Coi compagni, col figlio e coi penati
E i grandi Iddii. Stende a rincontro vasti
Campi una marzïal terra che i Traci
Coltivano, già tempo dominata
Dal feroce Licurgo. Ospizio v' ebbe
Antico Troia, ed erano i penati
Comuni alle due genti, infin che stette
Nostra fortuna. lo là mi reco, ed alzo
Con avverso destin le prime mura
Sul curvo lido, e dal mio nome appello
Eneade la città. Di sacrifizi

La madre Dionèa stava onorando
E gli altri Iddii dell' opra incominciata
Auspici, ed immolava un bianco toro
Al gran re de' celesti. Era là presso
Per caso un poggerel, su la cui cima
Sorgevano corniali ed un mirteto
Aspro di dense punte. Io mi v' accosto,
E mentre di strappar la verde selva
Mi sforzo dal terren, per coprir l' are

Ivi: Mavortia. La Tracia è detta marziale perchè, secondo Omero, vi avea sede Marte.

20. Nitentem. Piuttosto che pingue è da intendersi candido, perchè tali si offerivano le vittime a Giove

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Horrendum et dictu video mirabile monstrum.
Nam quae prima solo ruptis radicibus arbos
Vellitur, huic atro liquuntur sanguine guttae,
Et terram tabo maculant. Mihi frigidus horror
Membra quatit, gelidusque coit formidine sanguis.
Rursus et alterius lentum convellere vimen
Insequor et causas penitus tentare latentes;
Ater et alterius sequitur de cortice sanguis.
Multa movens animo, nymphas venerabar agrestes
Gradivumque patrem, geticis qui praesidet arvis,
Rite secundarent visus omenque levarent.

Tertia sed postquam maiore hastilia nisu
Aggredior genibusque adversae obluctor arenae,
(Eloquar, an sileam?) gemitus lacrimabilis imo
Auditur tumulo, et vox reddita fertur ad aures:
Quid miserum, Aenea, laceras? Iam parce sepulto,
Parce pias scelerare manus; non me tibi Troia
Externum tulit, aut cruor hic de stipite mangt.
Heu fuge crudeles terras, fuge litus avarum:
Nam Polydorus ego. Hic confixum ferrea texit

29. Mihi frigidus horror. L' Ariosto C. 18: Un timor freddo tutto il sangue oppresse.

33. De cortice sanguis. Belle imitazioni abbiamo di questa favola in Dante nella selva de' violenti, in Ariosto nell' isola d'Alcina, e in Tasso nel bosco incantato.

35. Gradivum. Marte così chiamato dal greco cradaino, vibrare. lyi. Getici. I Geti erano popoli della Dacia, confinante alla Tracia, epperò si confondono dal poeta co' Traci istessi.

45. Confixum. Gli strali con cui mi confissero, poi germogliarono, per voler de numi, quasi fossero altrettanti semi, e produssero questi arboscelli.

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Di que' rami fronzuti, orrendo veggo
Un prodigio mirabile. Chè il primo
Arboscello, dal suol per le spezzate
Sue radici divelto, a stille gronda
Un nero sangue, e n'è la terra aspersa
Ed insozzata. Un freddo orror le membra
Scossemi, e per paura in ogni vena
Il sangue si gelò. Di nuovo io presi
D'un altro arbusto a svellere un vinciglio,
Ed esplorar di ciò le troppo occulte
Cagioni, e nero sangue ecco pur viene
Dalla corteccia. Molti riandando
Nell' animo pensieri, io venerava
Le agresti ninfe, e Marte onde tutela
Hanno i Getici campi, acciò che in bene
Quelle cose volgessero, e men tristi
Ci mandasser gli augurii. Ma quand' io
Con maggior lena attentomi di trarre
Un terzo ramicello, e le ginocchia

Contro la terra appunto (il dico o il taccio?),
Un lagrimabil gemito dal fondo

Del poggio uscir si sente, e negli orecchi
Una spiccata voce mi ferisce:

Perchè un misero, o Enea, strazii? Il sepolto

Cessa di molestar; le mani pie

Dal bruttar ti ritieni. Estrano Troia
A te non mi produsse, nè da sterpi
Gronda il sangue che miri. Ahi fuggi queste
Crudeli terre e questo avaro lido.

Che Polidoro io son. Qui me trafitto

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Telorum seges et iaculis increvit acutis.
Tum vero ancipiti mentem formidine pressus
Obstupui, steteruntque comae, et vox faucibus haesit.
Hunc Polydorum auri quondam cum pondere magno
Infelix Priamus furtim mandarat alendum
Threicio regi, quum iam diffideret armis
Dardaniae cingique urbem obsidione videret.
Ille, ut opes fractae Teucrum, et fortuna recessit,
Res agamemnonius victriciaque arma secutus,
Fas omne abrumpit, Polydorum obtruncat, et auro
Vi potitur. Quid non mortalia pectora cogis,
Auri sacra fames? Postquam pavor ossa reliquit,
Delectos populi ad proceres primumque parentem
Monstra deum refero et, quae sit sententia, posco.
Omnibus idem animus scelerata excedere terra,
Linqui pollutum hospitium et dare classibus austros.
Ergo instauramus Polydoro funus, et ingens
Aggeritur tumulo tellus: stant manibus arae

51. Threicio regi. Polinestore.

57. Sacra. Così Dante:

A che non reggi tu o sacra fame

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Ove sacra è inteso per esecrata. A me par migliore qui il senso di sacrilega, perchè gli fece violare la santità de' giuramenti, e i diritti dell' ospitalità.

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Una ferrea copri messe di dardi,

E in selva crebber poi gli strali acuti.
Fu da dubbio terror la mente mia
Quindi compresa; istupidii, le chiome
Mi si rizzaro, e nelle fauci affissa
La voce si fermò. Codesto aveva
Suo Polidoro un di Priamo infelice
Mandato al Tracio re nascostamente
Con molto carco d'oro, a fin che presso
Lui menasse la vita, allor che poco
Fidente omai dell' armi iliache, stretta
D'assedio vide la città. Costui,
Come la possa fu de' Teucri affranta
E da lor dipartita la fortuna,
Seguendo d' Agamennone le sorti
E l'armi vincitrici, iniquamente
Rompe la fede, e, ucciso Polidoro,
Con violenza togliesi la grande

Di lui ricchezza. A che, fame dell' oro
Sacrilega, non forzi i petti umani?
Poi che della paura il gel si sciolse
Dalle mie vene, quel prodigio ai capi
Di nostra gente eletti, e al padre in prima,
Racconto, e quale di ciascuno sia

Il parer, chieggo. Ad una voce tutti
Dicon che dalla terra scellerata
Partir si deggia, abbandonar l'ospizio
Della fè violata, e sciorre ai venti
Senza indugio le vele. Adunque noi
Le esequie celebriam di Polidoro,
E s'innalza ampio cumulo di terra.

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