De' Danai largamente si precipita. Ma subentrano tosto altri, nè cessano Pel rilucer del ferro ond' è vestito. Quale appena esce all' aura un gran serpente Di mala erba pasciuto, che la fredda 725 Bruma gonfio copria sotto il terreno, Deposta ora la scaglia, e rinnovato A giovinezza e nitido, con erto Capo e petto supino al sol travolve Le sue lubriche terga, e dalla bocca 730 Vien dardeggiando le trisulche lingue. Seco è il gran Périfante e il prode auriga D' Achille e suo scudiero Automedonte; Lo stuolo tutto degli Sciri insieme Alla magion s'accosta, e sovra il tetto 735 Avventa fiamme. Egli tra i primi afferra Una bipenne, e quelle dure soglie Rompe, e strappa dai cardini le imposte Di bronzo ricoverte, e già, recisa Una trave, spezzò le forti sbarre 740 Di rovere, e nel mezzo ampia dischiude La reggia, e corre i lunghi atrii lo sguardo, Re le stanze recondite, e guerrieri 745 Dappresso al limitar co' brandi in pugno. At domus interior gemitu miseroque tumultu Non sic, aggeribus ruptis quum spumeus amnis Fertur in arya furens cumulo camposque per omnes Cum stabulis armenta trahit. Vidi ipse furentem 500 Caede Neoptolemum geminosque in limine Atridas; Vidi Hecubam centumque nurus, Priamumque per (aras 487. Cavae. Non vano epiteto parlando dell' echeggiar detle grida. 488. Ululant. Egregia metafora che il solo Leopardi, fra i traduttori ch' io conosco, ha giustamente conservata, dicendo: le cave stanze Ululan tutte al femminil lamento. 489. Pavidae. Forse il poeta ricordò la Medea di Apol lonio Rodio nel principio del Lib. IV. Vedasi la bella traduzione fatta del poema istesso (gli Argonauti) dal soprallodato prof. Giuseppe Rota. Così Ariosto, C. 17. 491. Vi patria. Colla forza ereditata dal padre, o non minore di quella del padre. 492. Ariete. Intendesi dei colpi merati da Pirro, per similitudine ed iperbole. Ma nell' interna casa alto e confuso 750 Di tutto l'edificio; il grido immenso Errano per le grandi aule, e abbracciate 755 Nè di sbarre o di guardie impedimento Nella sua piena i colti, e seco armenti Vidi, e il re che del suo sangue fra l'are 499. Vidi ipse. Assai maggiore effetto da queste parole acquista la narrazione. Sanguine foedantem, quos ipse sacraverat, ignes. 505 Procubuere; tenent Danai qua deficit ignis. Forsitan et Priami fuerint quae fata requiras. Urbis uti captae casum convulsaque vidit Limina tectorum et medium in penetralibus hostem, Condensae et divûm amplexae simulacra sedebant. 502. Foedantem. Macchiava col suo sangue l'ara medesima su cui aveva acceso il fuoco. pel sacrifizio. 503. Quinquaginta thalami. I] C. che spesso ha felicissime eleganze, usa talora modi troppo ordinarii come qui, ove traduce: Cinquanta maritali appartamenti Avea nel suo serraglio. 504. Barbarico. Cioè molto, dice Servio, perchè i Barbari si dilettano più della grande quantità che della eleganza. 506 Forsitan. Questo breve episodio mette il colmo alla pietà di già ridestata dalle cose precedenti. Contaminava i fochi, in pria sacrati 785 Grava, e là dove son più dense l'armi Fu in mezzo agli edifici e all' aura aperta Un grand' altare, e vi sorgea daccanto Un alloro antichissimo che d'ombra 790 I Penati copria. Qui insieme accolte Ecuba e le figliuole intorno all' ara Inutilmente, a guisa di colombe Che fa lungi involarsi atra tempesta, Colle braccia teneansi avviticchiate 795 Ai simulacri degli Dei. Ma quando Priamo vid' ella che indossava l'armi Sue giovanili: Qual tanto funesto Pensiero, infelicissimo consorte, 512. Sub axe. L'ara nel gran cortile a cielo scoperto, dedicata a Giove Erceo, dal greco ercos, recinto, perchè proteggeva l'interno delle case. |