massima grandezza di quel nome riposa propriamente sull'Eneide, che è il più alto portato della poesia latina, e che fa di Virgilio non solo il principe ma anche il più essenzialmente nazionale dei poeti latini. A questa dunque dobbiamo noi principalmente volgere lo sguardo nella storia che ora intraprendiamo. CAPITOLO I. Il supremo ideale dell'epopea era per gli antichi, com'è anche per noi, l'epopea Omerica: ad essa guardava il poeta epico nel comporre, ad essa il pubblico nel giudicare di lui. Quell'ideale era tanto alto che, mentre escludeva la possibilità di raggiungerlo, anche restando inferiori si poteva pur toccare un' altezza imponente e prodigiosa. Nel giudicare Virgilio i romani corsero subito all' inevitabile confronto; distinguendo fra la potenza divina di chi creò e l'ardua e faticosa opera di chi imitava, riconobbero invero l'inferiorità del poeta loro rimpetto all'antico greco (chè le esagerazioni di certi entusiasti non si possono prendere per la regola) (1), ma videro altresì che di quanti tentativi in quel genere erano stati fatti in lingua greca e romana il più felice era il virgiliano. Questo giudizio, limitato ad un confronto assoluto ed esterno delle due poesie, era giusto (1) Quanta parte avesse l'amicizia nell'enfatico « Nescio quid maius nascitur Iliade » di Properzio, è reso manifesto dalle espressioni che questi adopera anche a riguardo di un altro suo amico, Pontico, autore di una Tebaide che rimase affatto dimenticata (1, 7, 1-3): « Dum tibi Cadmeæ dicuntur, Pontice, Theba atque, ita sim felix, primo contendis Homero, etc. » senza dubbio. Ma quante volte il confronto si estendesse alla natura ed alle cause di quelle composizioni epiche, gli antichi, non conoscendo l'essere vero dell'epopea omerica come oggi noi lo conosciamo da Vico in poi, consideravano erroneamente Omero e Virgilio come due individui solo distinti per lontananza di tempi e grado di genio; talchè essi a rigore avrebbero dovuto giudicare Virgilio meno favorevolmente di quello noi siamo oggi in grado di fare. Difatti noi distinguiama fra l'epopea primitiva, spontanea, d'origine non individuale ma nazionale, e la epopea imitativa e di studio, tutta opera individuale, nata in tempi di riflessione e di storia nei quali la prima diviene impossibile; come nell'una troviamo che l'epopea greca ha il primato sulla epopea di simile natura di tutti gli altri popoli, così nell'altra riconosciamo che fra i varj tentativi sia di greci sia di latini come anche di noi stessi italiani, e di tutti gli altri popoli moderni, niun altro ha mai raggiunto quel grado di perfezione relativa che toccò l'epopea virgiliana. Nel fare questa distinzione noi collochiamo Virgilio nel suo vero posto, e se lo paragoniamo con Omero, teniamo conto dell'immenso divario che corre fra i due nella natura e nelle cause genetiche della loro poesia; noi abbiamo quindi della sua inferiorità spiegazioni o scuse che mancavano affatto ai romani. Ma se da questo lato le condizioni del sapere di quell' epoca sarebbero state sfavorevoli al poeta, o certamente men favorevoli che le presenti, gli effetti di ciò erano affatto cancellati e compensati con larga usura dall' accordo fra quella poesia e i sentimenti e i bisogni del popolo per cui era creata. Molti hanno detto già che l'epopea virgiliana solleticava la boria nazionale ed era quindi destinata a molto successo; ma questa idea ovvia e volgare, se in certo senso ha del vero, non va intesa com'essa volgarmente suona. Il popolo romano, o meglio il mondo romano, costituisce una individualità per natura, per vita, per composizione talmente eccezionale, che giudicarla colle stesse norme con cui si giudica qualunque altro popolo, è un errore. Esso è un ente storico per eccellenza; la sua vita è una espansione continua dalle minime alle più gigantesche proporzioni, nella quale egli obbedisce ad un impulso fatale, irresistibile, che comincia fin dal primo momento della sua esistenza, dal fatto politico della fondazione di Roma. Questo estremo limite dei suoi ricordi nazionali è il nucleo di un ingrandimento tanto costante, è tanto strettamente connesso colla natura della vita nazionale susseguente, che anche la favola delle origini come quella di altri fatti successivi ne acquista un carattere politico e pratico (1). Il ricordo di un'età eroica estranea affatto all'attività politica, nella quale gli elementi nazionali rimanessero sparpagliati e non centralizzati con una mira che riguardasse tutto l'avvenire della nazione, non esiste presso i Romani. La piccola gente latina, dal cui seno venne quell'embrione di grandezza, non fu certamente dimen (1) I dotti di oltr' alpe commettono spesso un grave errore, di cui si risentono gli effetti molteplici in molte e varie loro opere, quando giudicano le idee e i sentimenti di un popolo eccezionale che si concentrava tutto in una città, e contava la sua esistenza ab urbe condita, con quelli stessi concetti con cui giudicano il popolo greco, e tenendo sempre la nazionalità greca dinanzi alla mente. La saga romana non poteva spaziare gran fatto al di là del campo proprio a quelle xrious rohswv che fra i greci naturalmente non potevano costituire la parte più spiccante del materiale leggendario nazionale. Se poi l'invenzione fantastica dei romani in quanto concerne il loro passato, ticata; ma fra essa e Roma rimanevano ben visibili tutte le differenze che distinguono in due individualità, affini ma diverse, la madre e la sua prole. Questo essere storico che fin dal primo momento della sua vita ebbe la coscienza di sè e della sua missione, che visse di attività storica mirando sempre ad una meta reale e determinata, che a sè stesso ed alla propria energia dovette il successo e la grandezza, doveva naturalmente trovare nella contemplazione della propria entità e della miracolosa sua vita una potente ispirazione poetica. C'era un sentimento di natura tutto speciale, che potremo chiamare storico, come quello che risultava dall'idea di una grandiosa attività storica, il quale non ristretto nei limiti segnati dalla cerchia di una sola nazione, ma comune a genti le più diverse che Roma avea saputo non solo sottomettersi ma anche assimilarsi, si distingueva dal sentimento nazionale che è proprio di ogni popolo pel suo carattere astratto ed universale, tanto che sopravvisse allo stesso dominio romano. Questo entusiasmava i dominati e i dominatori egualmente, e fra le tante espressioni di esso, che dal principio alla fine distinguono ed in gran parte anche compongono la letteratura latina, è impossibile trovare una differenza qualsivoglia fra tanti scrit rivela, come doveva, la loro tendenza politica e pratica, non per questo essa è sprovvista di una sua grande poesia. Fa piacere udire un uomo, che certamente non può essere accusato di parzialità pei romani, conchiudere un lavoro sul racconto di Coriolano colle seguenti eque parole: «<Wer in diesen Erzählungen nach einem sogenannten geschichtlichen Kern sucht, wird allerdings die Nuss taub finden: aber von der Grösse und dem Schwung der Zeit zeugt die Gewalt und der Adel dieser Dichtungen, insbesondere derjenigen von Coriolanus, die nicht erst Shakspeare geschaffen hat. » Mommsen, in Hermes, IV, p. 26. tori di nazione diversa, romani, greci, etruschi, galli, iberi, africani o altri (1). Tornando adunque all' epopea, è chiaro che i Romani dovevano avere una naturale tendenza all'epopea storica, ed il fatto stesso lo prova colla quantità di epopee storiche che essi ebbero da Nevio a Claudiano (2), fatto che non ha riscontro presso i greci, e per buone ragioni. Ma quel sentimento, che animava tutto il mondo. romano e tanto avea bisogno di espansione, era di natura e di origine tale, che riusciva sommamente difficile trovarne l'espressione epica. Considerato nella sua causa ed astrattamente, esso è tale che s'intende come dovesse naturalmente spingere all'epopea; ma quando si cercasse per questa un subbietto in cui concretarlo e dargli una formola adeguata, subito si presentava la base storica su di cui esso riposava, e ciò a scapito; poichè il fatto storico, finchè sia presente alla mente come tale, non può in alcuna guisa servire all' epopea. Per tale scopo conviene che prima esso diventi fatto epico, è necessaria cioè una elaborazione della fantasia, non di un individuo ma della nazione, che lo tramuti in ideale poetico; opera giovanile di cui l'animo nazionale non è più capace in epoche di maturità storica. A sciogliere il difficile problema. (1) Cfr. i molti luoghi d'autori che esprimono questo entusiasmo raccolti da LASAULX, Zur Philosophie der römischen Geschichte, pag. 6 segg., ai quali però molti altri se ne potrebbero aggiungere, oltre al tono generale ed alla caratteristica tendenza di molti scrittori, quale principalmente Livio, che a chi lo paragoni coi greci (fra i quali nulla si trova di simile all'opera sua), offre il più evidente saggio di quanto siam venuti notando. (2) Vedine la enumerazione presso TEUFFEL, Gesch. d. röm. Litt. pag. 27. |