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o i loro concetti, sono già spesso in Ennio. Non dico degli arcaismi che rivendica al suo diritto di poeta, come induperator, induperantum, virgnes, prodinunt, ma Ennio ha preceduto tutti nell'uso di perifrasi e sined doche, senza le quali mancherebbero a noi alcuni de' migliori versi dei già nominati. Eccone alcune: genus altivolantum alites; somno sepulti=dormientes; Romana iuventus: lites; volsculus=volsculi; ilex, fraxinus, abies=ilices, fraxini, abietes; horridus miles = horridi milites; veles: = velites; ungula = ungulae. Nè è da tacere l'uso ingegnoso della tmesi (non credete alle calunnie dei grammatici: IS. 100 e 101) e della sinizesi: conque fricati et confricati, de me hortatur : me dehortatur, adiuero, eorundem. Si deve ad Ennio l'uso ora di fognare, ora di solidificare l'i ed il v; semianimes; sam sos e simili, insidjantes avjum. Egli fissò la prosodia dove fluttuava incerta; conservò per esempio la lunghezza dell'ultima nelle parole iambiche che tendevano ad abbreviarla, come in homo, domo, viri, manu, loco, loci; e fu esempio ai posteriori. Anche le sillabe, usate da lui lunghe perchè lunghe, cui però la forma dell'accento poi abbreviò, si trovano qua e là con la misura Enniana: aquila, agogea, conlega (?) dederītis, ponebat, tinnit, ponit, infit, soror, genitor, Imbricitor. Rimasero a lui fiere, adnūvit, fūimus, morimur. Nè con lui cessò l'elisione finale dell's. Egli era ben sottile giudice, il Rudino dai tre cuori; e a lui si deve la consuetudine di geminare le consonanti, che erano prima scritte scempie (1). Quisquilie di grammatico? No: il grande artista che già della mente vede nel blocco la bella statua, ha bisogno per scoprirvela che siano buoni il mazzuolo e lo scalpello e le raspe e le lime.

Da questo lavorìo attento e minuzioso uscì perfetto il verso. Non solo; ma lo stile poetico ne uscì bello e formato. Fu veramente come se Omero cantasse nella lingua di quel poeta barbaro, di cui Plauto vedeva l'os columnatum. Tutto ciò che doveva parere di Omero più esclusivamente proprio, più irriducibile in altra lingua, il poeta Rudino lo rende così che qualche volta pare che in Italia siano nate quelle forme e formule. Siano ad esempio queste unioni tipiche di parole, unioni che Ennio salda a volte o con l'allitterazione o con l'omeoteleuto: vires vitaque, clamque palamque, dictum factumque, noctesque diesque, divumque hominumque. Chi direbbe che siano, come sono, la traduzione delle endiadi omeriche ψυχή τε μένος τε, ἢ ἀμε φαδὸν ἠὲ κρυφηδόν, ἔργον ἔπος τε, νύκτας τε καὶ ἥματα, ἀνδρῶν Tε lewν tε? Nè meno felici sono, sebbene non parimenti native, murosque urbemque, malaque et bona, veteresque novosque, vita seu mors, si vivimus sive morimur, ferro lapique, iubet horiturque. Ve

(1) Fest. 293: quam consuetudinem (di non geminare) Ennius mutavisse fertur, utpote Graecus graeco more usus.

diamo poi che egli ha saputo latinizzare (nè dimentichiamo che pochi frammenti ci sono rimasti della grandiosa opera) certi trapassi e certi riassunti, così necessari alla narrazione epica, come il vivagno alla tela: Haec ecfatus, Olli respondit, Tum coepit memorare, Est locus, Ecfudit voces, Talia commemorat lacrimans, Sed quid ego haec memoro? e simili. Vediamo che egli rende quelle ridondanze, quelle circoscrizioni, quegli epiteti ornanti, che sono il sale che dà il sapore alla narrazione epica: precibus orat, voce vocabam, corde cupitus, Corde suo trepidat, animus cum pectore latrat, in pectore fixa, meum corego, corpora avium = aves, Graium genus, genus Aeacidarum, aetheris oras, luminis oras, oras belli, pietas animi, suavis sonus Egeriai, aequora campi, superbia Poeni, Vestina virum vis, aquae vis, caeli templa, porta caeli, lumen solis, belli postes portas que, manus vi, sola terrae, genus alte volantum, spiritus austri, ponti prata; bonus Ancus, bona femina, cordatus homo, catus Aelius, Romulus pulcher, horridus miles, magnum Olimpum, somno leni, intempesta nox, veter Priamus, stellis fulgentibus, caeruleum sale, foedus firmum, blanda voce, flumine sancto, fici dulciferae, candida lux, praepes avis, calido sanguine, caerula templa, navibus pulcris, densis pinnis, tempestate serena, abies alta, ferratos postes, litora lata, cautibus celsis, validae vires, mare salsum, malo cruce, aequora cana, teneras auras, manu magna, crateris auratis, cava ungula, uncta carina, e altri. Più difficile era con la poco malleabile lingua latina foggiare i flessibili composti; eppure anche in ciò Ennio riuscì ardito e geniale, e, che noi sappiamo, fornì alla poesia questi: bipatens, altisonus, altevolans, suaviloquens, altitonans, velivolus, dentifaber, laetificum, dulcifer, frugifera, e altri. Che se nell'uso dei composti fu preceduto da Naevio, che ha bicorpores, arquitenens, silvicolae, egli fu il primo a introdurre i patronimici Greci, di cui abbiamo un esempio in Aeacidas Burrus. Più latino è l'altro, Saturnius, mentre Livio, che pure ha Laertie, e Naevio dicono sempre con goffa lungaggine Saturni filie, Saturni filia, Atlantis filiam, filius Latonas, Monetas filia il primo; Iovis filiae, filii Terras, Cereris puer il secondo. Nè è da tralasciare che con Ennio cominciano le variazioni di forma, di cui tanto poi si usò per esprimere la paternità, che con filius e il genitivo riesce spesso impossibile nel metro dattilico: egli dice Eurudica prognata, Assaraco natus, Saturno create. Non meno felicemente derivò Ennio da Omero formule poetiche. Eccone esempi: recessit in infera noctis = oïxel 'ónò Cópov (y 335): Cum superum lumen nox intempesta teneret = νὺξ δὲ μάλα δνοφερή κατέχ ̓ οὐρανόν (ν 269 e spesso), Bellum aequis manibus non intempesta diremit, νὺξ ἐλθοῦσα διακρινέει μévog ávöρшv; e altre molte, come fretus manus vi, viribus fretus, virtutis egentem, vino domiti, laetanteis vino, somno revinctus. E come Omero, Ennio la sua formula armoniosa ripete, quando gli occorre

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quatit ungula terram, concutit ungula terram, Labitur uncta carina, Romana iuventus, che troverete ripetute, più quelle accennate come Olli respondit e simili. Ricordiamo le metafore, fauces, flos populi, hasta induvolans, micant oculi, spargere hastas, Suadae medulla, Cortina (= cielo), crudeli sepulcro (lo stomaco dell'avvoltoio), ferreus imber, fax (= il sole), lactantes fici, flumen vomit, sese somno siccat. Ricordiamo le personificazioni Terra corpus dedit, capit; semita nullo pedem stabilibat, cura coquit, nox volabit, vires contutudit hiems, sonus aere cucurrit, clamor vagit e altri; le metonimie, come ferrum per spada, Romulus per Romani, arma per guerra, lumina per vita, aes per tromba, carbasus per vela e altri; le sineddoche, come sanguine per vita, pectora per uomini, ungula per cavalli, carina per nave; Volsculus per Volsci, quadrupes eques per cavalieri, Opscus per Osci; scamna per trono, diem per tempo, rem per cosa pubblica. Quanto alla sintassi basti un accenno: chi non sa quale largo uso sia nella poesia latina dei verbi passivi, specialmente al participio, con lo stesso accusativo dell'oggetto, che avrebbero all'attivo? Il modelle di tale costruzione è in Ennio: perculsi pectora Poeni, succincti corda machaeris.

L'efficacia di Ennio in tutta la poesia romana non si deve misurare dalla sua, per quanto grande e durevole, fama. L'efficacia fu ben maggiore, ma non sempre diretta. Si prese spesso da Lucrezio e da Vergilio ciò che era d' Ennio. E d'altva parte è destino che il perfezionatore valga più dell'autore. Ben presto gli Annali entrarono nelle scuole. Intorno alla morte di Ennio, Crates Mallote introdusse in Roma lo studio della grammatica secondo la scuola Pergamena. Non molto dopo Q. Vargunteio leggeva avanti un uditorio affollato gli Annali, come Lampadione di lui più vecchio si occupava del Bellum Poenicum (1); prima dell'età di Cicerone il syro M. Pompilio Andronico, un molle Epicureo, aveva fatto gli elenchi degli Annali, cui Orbilio pubblicò (2), e M. Antonio Gniphone, la cui scuola frequentava Cicerone stesso, pare che ai medesimi avesse fatto un suo commentario (3). Poi Cicerone non solo lo chiama summum epicum poetam (*), ingeniosum (3), ma lo cita spesso e a lungo e con ammirazione. Nel tempo d'Augusto il culto di Ennio trovò una tal quale opposizione in Orazio, che non amava il soverchio e odiava l'eterno vezzo degl'invidi che detraggono a chi invidiano, più lodando altri, specialmente se morti, che biasimando loro. Tuttavia se egli vuol portare un esempio di elocuzione poetica, grave non solo per il verso

(1) Suet. gramm. 2 cf. 1.

(2) Suet. gramm. 8.

(8) Così induce Buecheler da un accenno negli Schol. Bern. ad Verg. Georg, ii 119. (4) de opt. gen. or. 2. pro Balb. xxii 51.

(6) pro Mur. xiv 30.

ma per le parole, porta un esempio di Ennio (1). Nè Vergilio fece dimenticare il padre della poesia Romana. Vitruvio scriveva che chi aveva l'animo alla poesia, doveva avere nel cuore il simulacro di Ennio consacrato come quello di un nume (2). Al tempo di Gellio si leggeva in teatro, al popolo, tra le acclamazioni (3); Hadriano imperatore lo preferiva a Vergilio ('); solo più tardi, Macrobio deplorava che il suo tempo rifuggisse da quella salubre lettura (5). Ma nessuno gli fece così grande onore, come Vergilio con la sua allegoria di guerrieri musici; nessuno lo dipinse meglio che Quintiliano, col suo gusto squisito, paragonandolo a un bosco sacro, in cui le maestose antiche quercie sono più venerabili che appariscenti (°). Del bosco sacro a noi non resta, cui adoriamo, se non qualche ceppo e molti infiniti rampolli, trapiantati qua e là e cresciuti ad alberi bellissimi come quelli che meglio furono educati dalle mani diligenti dei coltivatori. Ma come non rimpiangere la solenne penombra della selva nativa e quell'odore di antico e quel murmure di sogno?

VII.

E quanti imitatori e continuatori ebbe egli! Di che tempo fu quell'Hostio, che scrisse almeno due Annales della guerra Histrica? E tale guerra fu quella già cantata da Ennio, del 576, o l'altra del 629 ? Prisciano viene a chiamare vetustissimum questo poeta (7). La parola non ci licenzia a porlo poco dopo Ennio? Ma come e perchè volle trattare lo stesso argomento di Ennio? Properzio (9) lo chiama 'dotto. Volle egli allungare e sdoppiare il libro di Ennio, condendolo di maggiore dottrina? Libero è il campo all' imaginazione. Poco prima o poco dopo Hostio, scisse annali L. Accio nato il 584 a Pisauro (Pesaro) (9), autore di molte tragedie, grandioso e sonoro, autore d'una storia della poesia greca e romana inscritta Didascalica, autore di libri Pragmaticon di argomento storico letterario, autore d'un'opera di argomento rustico, intitolato Praxidica o Parerga, autore finalmente di Annales, di cui è citato il libro XXVII, che si corregge in VII. Era in essi

(1) Sat. I iv 60 e seg.
(2) Vitr. IX praef. 16.
(8) Gell. XVIII v 2, 3, 7.
(4) Spart. Hadr. xvi 6.

(5) Macr. S. VI ix 9.

(6) Quint. X i 88: Così è in Gell. 1. c. II liber summae atque reverendae vetustatis. (7) Hostius, fr. iv. Prisciano dice: vetustissimi etiam hoc pecu'... dicebant. Hostilius in I annali.

(8) IV xx 8.

(9) Hier. MDCCCLXXVIII=615, L. Accius... natus Mancino et Serrano coss. (584).

fatta larga parte a erudizione mitologica e rituale, se possiamo giudicare dai frammenti (1). Morì molto vecchio (2).

Familiare di Lutazio Catulo, console nel 652 e morto nel 667, il quale a lui mandò un commentario, nello stile di Xenophonte, sul suo consolato, fu Aulo Furio (3) poeta, il quale è certo il Furio Anziate di cui A. Gellio riporta sei versi ex carminibus, versi ripresi da Caesellio Vindice per certe strane invenzioni, secondo lui, di parole, lutescit, noctescunt, virescit, purpurat, opulescere, dal che Gellio lo difende. Di che trattassero questi carmina o questi poemata, non sappiamo. Del suo tempo era Cn. Mazio che compose mimiambi a imitazione di Heronda o Heroda, e tradusse l'Iliade; un poeta che da Gellio è detto doctus vir, homo impense doctus, vir eruditus; un poeta dotto che della grecità gustava sì i più antichi, sì i più recenti frutti. E del suo tempo era l'inafferrabile Ninnio Crasso che avrebbe tradotto e l'Iliade e le Cypria, o avrebbe fuso l'una e le altre in un solo poema di ventiquattro libri ? Nulla se ne sa. Anche più oscuro è Gannio, citato tre volte da Prisciano per l'incertezza della prosodia di ador.

Sin dai suoi giovini anni scrisse versi M. Tullio Cicerone (648-711). Di lui giovinetto si conservava anzi un poemation in tetrametri intitolato Pontios Glaucos(1). Admodum adulescentulus, dice egli stesso (5), tradusse i Φαινόμενα di Arato; pià tardi i Προγνωστικά del medesimo. E via via compose i poemetti, Halcyon o Halcyones, Uxorius, Limon (il prato, di cui l'argomento era critico-letterario), un'elegia (Thalia maesta ?), epigrammi (o). Come di Aeschylo, Sophocle, Euripide e altri, così tradusse, citando, luoghi di Omero: otiosi convertimus ('). Nel 694 probabilmente componeva i tre libri del suo consolato, li componeva, ne quod, come egli stesso scriveva, genus a me ipso laudis meae praetermittatur (8). Il quale fine, da lui non dissimulato, fece spiacere a molti i suoi versi (9). Intorno al 699 componeva, pure in tre libri, un altro poema de temporibus meis (1o). Nel 700 scriveva poema ad Caesarem come vincitore della Britannia, suave, mihi quidem uti videtur, epos ad Caesarem (11). E dello stesso

(1) Fr. i e iii.

(2) Cic. Brut. 107 Phil. I 36.

Cic. Brut. XXX V 132.

(4) Plut. Cic. 2.

(5) nat. deor. II 204.

(6) Iul. Capit. Gordian. iii 2. Suet. vita Ter p. 34, 2 R. Plin. NH. praef. 24, Gell. praef. 6. Serv. in Buc. i 57. Plin. ep. VII iv 3. Quint. VIII vi 73.

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(9) Quint. XI i 24 in carminibus utinam pepercisset, quae non desierunt carpers maligni.

(10) ad fam. I jy 23, ad Q. fratr. III i 24, II xiii 2, xv 5, ad Att. IV viii b 3. (11) ad Q. fratr. III i 11, III ix e altrove.

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