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LA POESIA EPICA IN ROMA

COMMENTARIO PRIMO.

I.

e

L'Epos è la poesia degli anni migliori' (1). E quali questi anni? Gli anni passati e lontani. Noi diamo al tempo biasimo e mala voce, perchè scolora, per usare le parole di Servio (2), la virtù umana: a torto; poichè esso invece colora ogni cosa d'una patina inimitabile che rende tutto bello, venerabile, augusto. Non le cose presenti scolora, ma colora le passate, sì che quelle al paragone di queste paiono pallide e smorte. Nel brevissimo giro della nostra vita, ognun di noi ha il suo epos, e volentieri dice, o direbbe, quando la dea che dà il bene e il male, gli fosse presente: 'L'uomo narrami, Musa': l'uomo che fu e non è, in noi; l'uomo che molto errò, che molto sofferse öv xatá Oupov, che era bello, grande, forte, destro, simile a un dio. Era veramente? A noi pare che fosse, e per la poesia basta. E quando comincia a parere? dopo quali traversie e disinganni? Ma lasciamo l'uomo per gli uomini. Io credo che tutti i popoli in tutti i tempi trovino nel passato della loro storia ciò che a mano a mano le singole persone nel passato della loro vita: qualche cosa di bello, o di meglio, che allora però non appariva quello che ora. Ma perchè un popolo abbia il suo epos, e l'abbia tale quale è quello di Omero, occorre ben altro. Occorre, oltre un fondo di miti ricchissimo e una agilità d'imaginazione straordinaria, oltre una lingua così duttile come la greca e un verso così potente come l'esametro, occorre che quel popolo sia, per così dire, come il Nestore omerico: che gli si siano bensì consumate due generazioni d'eroi, ma che tra i terzi viva ancora e

(1) Aen. vi 649: Magnanimi heroes, nati melioribus annis.

(2) Serv. al verso di sopra: plerumque enim hominum virtus decoloratur temporis infelicitate,

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regni. Dice il vecchio (1): Chè già una volta io pur con migliori che voi Uomini vissi insieme, e non mai mẹ essi spregiavano. Chè non mai tali vidi uomini nè potrò vedere Quale e Peirithoo e Dryante, pastore di popoli, E Caineo e Exadio e il pari a un dio Polyphemo.... Fortissimi in vero erano quelli tra quanti uomini terreni furono nutriti: Fortissimi erano e con fortissimi combattevano... e con loro nessuno di quelli che ora mortali sono terreni, combatterebbe '. Nestore non è più quello d'una volta, Nè più salde membra gli sono i piedi nè più le mani Dagli omeri di qua e di là gli si avventano snelle' (2); come quando uccise egli, il più giovane di tutti, Ereuthalione detto il clavigero, là dove quel torrente impetuoso, tutta voce, si getta nell'Iardano (3); come quando, giovinetto, razziava le mandre e le greggi degli Elei e inseguiva gli Epei simile a scuro uragano' (*): come quando al seppellimento di Amarynceo, vinse a pugno Clytomedeo, alla lotta Ancaio, alla corsa Iphiclo, alla lancia Phyleo e Polydoro, e solo ai cavalli fu superato; ma erano due fratelli gemelli: uno teneva forte le briglie, Forte teneva le briglie e l'altro col pungetto via aizzava '(5): allora spiccava tra eroi, allora viveva tra uomini (°); non quali ora sono mortali' (7). Ma via! co. desti mortali del dì d'oggi, non sono poi da disprezzare; e Nestore, il vecchio brontolone, esagera: esagera l'ignavia o debolezza presente, perchè ama il passato eroico, ed esclama ogni tratto: "Q лóROI, ✈ μéya névƉo5... (8) Chè poi, gli uomini presenti quali sono rispetto ai passati? Tali che due di essi farebbero a stento quello che uno di quelli eroi faceva agevolmente. Ed egli un masso prese con la mano, Il Tydeide, gran fatto, cui non due uomini porterebbero, Quali ora mortali sono; ed egli lo palleggiava agevolmente anche solo' (9); * Cui (una pietra) non due uomini del popolo più forti Facilmente sul carro da terra caricherebbero, Quali ora mortali sono; ed egli lo palleggiava agevolmente anche solo (1o). Altra volta il confronto, anzi, è d'uno a uno: 'nè agevolmente lo Terrebbe con ambedue le mani un uomo nemmeno ben giovane, Quali ora mortali sono; ed egli dall'alto lo gettò, alzatolo' (11). Tempo da questa poesia non è più quando

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(7) E 804, M 383, 449, 287. Cf. Aen. xii 900: Qualia nunc hominum producit corpora tellus.

(8) A 254, H 124.

(9) E 302-4, Y 285-7 dove è Aineias invece di Tydeides.

(10) M 447-9.

(11) M 381-3.

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il poeta senta di dover fare un paragone più meraviglioso. Iasone, nelle Argonautica, 'Afferrò dal piano un grande rotondo pietrone Terribile disco dell'Enyalio Ares: non uomini robusti cinque da terra l'avrebbero sollevato un pochino' ('); Turno, nell'Eneide, vede un gran sasso, come quelli di Omero, cui 'a stento due volte sei uomini scelti porterebbero in collo, Quali corporature d'uomini produce ora la terra; Egli lo prese con man frettolosa e lo palleggiava contro il nemico (2). Ebbene: e Iasone e Turno sono ben di quel quarto genere, dei felici eroi che ora abitano ai confini della terra, nelle isole dei Beati e a cui tre volte l'anno porta la terra il florido frutto (3); ma i loro poeti e quella poesia sono già troppo da loro lontani. Sentono essi, e specialmente il secondo, il compianto di quel troppo desiderabile tempo' ('); ma si accorgono anche che è troppo diverso dal loro, e paiono diffidare continuamente che agli uditori o, ahimè, lettori, esso non abbia a sembrare ora vero, ora mirabile.

È dunque il tempo troppo desiderato. Il canto è in fiore, e col canto anche la virtu eroica: αἰχμά τε νέων θάλλει και μῶσα λί Yela (5). Quando Achille prese la città di Eetione, padre della soave Andromache, dalle spoglie ammucchiate non scelse tripodi o lebeti, nè dalle prede allineate e aggruppate un pingue gregge o una donzella ben cinta, ma prese per dilettare il suo animo, una cetra arguta, bella, ben fatta, e sopra vi era d'argento il giogo. Ora in una notte assai dolente per gli eroi sotto Ilio (i ceryces in silenzio erano andati a chiamare a uno a uno nelle loro capanne i capi, e il capo di tutti aveva proposto di lasciar l'impresa, e un giovane guerriero si era opposto, e Nestore il vecchione aveva, dopo il convivio che appaga il cuore, consigliato a cercar di placare il Pelide), in quella notte dolorosa dopo la rotta, tre anactes seguìti da due ceryces si dirigevano lungo la fila delle capanne alla capanna dell'irato solitario. Essi andavano, brontolando voti: a tale andavano. Da una parte la pianura scintillante di fuochi, come un cielo sereno di stelle (i Troiani erano all'aperto in faccia alla loro grande città, e mille fuochi ardevano, e a ogni fuoco erano cinquanta guerrieri, e i cavalli stavano presso i cocchi, stritolando tra i denti l'orzo bianco e la spelta, e attendevano l'aurora); dall'altra il mare tutto rumori o bisbigli. Giunti alle capanne e alle navi dei Mirmidoni, giunti a quella capanna, udirono un canto. Era Achille, che accompagnandosi sulla

(1) Apoll. Rh. I 1364-6.

(2) Aen. xii 899-901.

(8) Hes. Op. et D. 156-73.

(4) Cat, Jxiv 22 e segg. O nimis optato saeclorum tempore nati, Heroes, salvetes deum genus, o bona matrum Progenies!

() Terpander 6 Bergk.: of. Pind. Ol. xiii 22.

PASCOLI, N. L. Epos - I - b

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cetra predata, cantava le glorie dei guerrieri (1). Quali i canti di Achille, che tali fatti compieva e pativa! Egli nel momento dell'ira sanguinaria, in cui traeva la grande spada dalla guaina, si sentiva afferrare per i rossi lunghi capelli e vedeva, egli solo, i due occhi fiammeggianti della Dea: egli, nell'ora dell'indignazione dolorosa e disperata, in cui in disparte da tutti piangeva (egli piangeva ma in disparte), tendeva le mani al mare e parlava alla nebbia che dal mare sorgeva, che era sua madre e che veniva e gli premeva il duro collo: Creatura, che piangi? Egli, così nobile era d'animo, così alto, che serviva d'esempio e modello a Socrate, quando esprimeva la religione del dovere (2) che vince l'amor della vita, cui non solo la divina madre aveva detto il suo fato dopo Hector pronta la morte', ma, quando già spirando battaglia, nelle armi nuove di Hephaesto che gli erano come ali e lo sollevavano in aria invece di tirarlo a terra, saliva sul cocchio, persino uno dei cavalli, il procelloso Xantho, gli parlava, chinando la testa sì che la criniera fluiva a terra; gli parlava, ammonendolo di nuovo del suo destino breve; ed egli: 'Xantho, a che morte mi annunzi? non ne hai bisogno, Bene, sì, lo so da me che mio destino è qui morire, Lontano dal caro padre e dalla madre: pure Non cesserò finchè i Troiani non siano saziati di guerra. Disse, e tra i primi con grida dirigeva i cavalli solidungoli '. Che nei primi tempi eroe e aedo fossero la medesima persona, che cantava e faceva le grandi imprese? Non dice Odysseo al cieco Demodoco: tu canti... quanto faticarono gli Achei Come o forse tu ci sia stato o da altro l'abbia udito '? (3). Nell'Iliade non è altro aedo che Achille e forse Paride (1), aedo forse d'amori; oltre Thamyris Thrace (nella Boiotia, che è la parte più recente del poema) e i cantori di threnoi nei funerali di Ettore, anch'essi in parte non primitiva dell'Iliade (5). Thamyris errava di corte in corte: veniva dall'Oechalia, dalla corte di Euryto Oechalieo (un valentissimo saettatore cui Apollo uccise perchè da lui sfidato all'arco); giunto a Dorio s'imbattè nelle Muse. Egli professava che avrebbe vinto esso, se pur anche le Muse cantassero, figlie di Zeus Aegioco: or quelle adiratesi cieco lo fecero, e pur il canto divino gli tolsero e gli fecero obliare l'arte della cetra (6). Ma non è dunque Thamyris di quei primi tempi,

(1) I a principio e in fine.

(2) Plat. Apol. Socr. 28 C. Per Achille vedi A 188-200, 348-363, Σ 96, T 384-424. (8) @ 491.

(4) I 54. Anche Demodoco, presso i molli Phaeaci, cantava amori: 0 266. (6) B 594-600. 0 224-6. 2 720-2.

(6) B 594: pare posteriore all'Odyssea, almeno agli episodi di Demodoco a una cui espressione sembra riferirsi: 0 64: Degli occhi lo privò, ma gli dava il dolce canto. Però il luogo dell'Iliade è molto discutibile: le muse лngòv léoav, avτảo άoidǹv... ¿pélovτo. È лngùs solo qui: vale cieco o muto o storpio, per es., della mano necessaria alla cetra? Il senso bisogna accordarlo con avrág seguente, e

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