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dere tuttora, essa vive e viverà eternamente. Delle critiche d' una specie più grave, alcune delle quali non le sono state ancor fatte, non potrebbero nè pur nuocere alla sua durata. Rimproverebbesi invano al Tasso, ad esaminarlo più presso, io non dirò d' aver troppo negligentato le rimembranze religiose congiunte ai luoghi ove si passa l'azione; egli le ha ricordate bastantemente, ed insistendovi davvantaggio, correva egli risico di cangiare la sua Gerusalemme in un di quei sacri poemi che mai non anno che una classe di lettori: io dirò solo con qualche moderno critico di non aver tratto dagl' istorici migliori dei fatti e delle circostanze che anno tutta la grandezza e tutto l' interesse delle finzioni dell' epopeja; di non avere assai fedelmente descritto i costumi dell' undecimo secolo e quelli in ispezieltà dei compagni di Goffredo; d'avere in qualche maniera alterata in essi la superstizione che li animava, prestando loro una credenza che non avevano ai prodigj operati dal diavolo, invece d' una disposizione prossima sempre ad esser colpiti d' un gran fenomeno della natura, ed a figurarsi delle apparizioni di Dio, dei santi o degli angioli; d'aver messo troppo spesso in luogo dei cavalieri della croce, come realmente erano, cavalieri romanzeschi ed immaginarj, che non furono mai che nel Bojardo e nell' Ariosto; d'aver anche mischiato de' falsi colori alle pitture dei costumi dell'Asia e d'aver soprattutto immaginato dell' eroine che i Musulmani non ebbero mai. Questi difetti peraltro ch' io rilevo dal citato signor Ginguené, e ch'egli ha tratto in più gran parte

da una lettera del signor Michaud il maggiore, occupato allora alla pubblicazione della sua istoria delle Crociate, inutile affatto, a dir vero, oggigiorno, ognun persuaso che furono tali crociate l'obbrobrio della ragione umana non meno. che della stessa religion santa di Cristo; questi difetti, io diceva, o non lo sono in niun conto, perchè il Tasso non presentava una istoria severa, ma tesseva un immaginoso poema, o se lo sono, nè pur' essi potranno nuocere più al successo oggimai immortale dell' opera, che alla stabile gloria dell' autore. Nel capo seguente si faran di leggieri conoscere le ragioni che giustamente gli an meritato un simil successo ed una simile gloria.

CAPO III.

FINE DELL'ESAME DELLA GERUSALEMME LIBERATĂ.

QUANDO la scelta del soggetto, il piano, i caratteri, l'interesse sostenuto e graduato, gli episodj, le descrizioni, i combattimenti, gl' incanti, l' elevazion dei pensieri, l'eloquenza dei discorsi, lo stile sempre o quasi sempre poetico ed animato; quando tutte queste qualità, scrive il signor Ginguené, si trovano riunite in un poema, malgrado alcuni difetti, (e qual'è l' opera umana senza difetti?) che vi si possan riprendere, il suo ́seggio di gloria è prescritto, e nulla glie lo può togliere. Scegliendo per soggetto un fatto istorico, il Tasso non obbliò già che la finzione non è solo uno degli ornamenti del poema epico, ma che n'è l'anima, l' essenza, ch'è la qualità intrinseca e distintiva che la diversifica dall' istoria. Egli creò una macchina poetica o un maraviglioso tratto dalla religione che avea fatto intraprendere l'acquisto ch' egli volea celebrare, e da un' altra sorgente ove tanti poeti attinto avevano prima di lui, talmente che era divenuta in alcun modo una mitologia popolare, quasi del pari accreditata negli spiriti, o almeno del pari conosciuta che la religione medesima, io voglio dir la magia. E chi non sa ciò che si credeva a' tempi di

quella crociata, cioè alfine dell' undecimo secolo? Dio e le intelligenze celesti, ministri de' suoi ordini, furono dunque nel poema del Tasso gli agenti sovrannaturali, protettori della santa intrapresa; gli angioli delle tenebre de' quali essa contrariava i disegni, furono incaricati di mettervi ostacolo: la verga degl' incantatori suscitò contra i guerrieri di Dio il disordine degli elementi e i tumulti delle passioni; in una parola, l' Eterno ed i suoi angioli da un lato, i demonj ed i maghi dall' altro, formarono quel maraviglioso che nell' epopeja dirige il corso degli avvenimenti, mentre che nell' istoria, sono essi l'effetto immediato, talvolta della prudenza, e troppo spesso della follia, o dell' umana perfidia.

D'uopo è quì rilevare un vantaggio che ha il soggetto di questo poema su quelli dei due antichi modelli del poema epico. Nell' Iliade, l' infelice re Priamo difende la sua città: egli è un re bonissimo, un rispettabile padre di famiglia, ma solamente troppo debole per l' uno de' suoi figliuoli. Le disgrazie ch' ei prova non anno alcuna proporzione con questo solo errore della sua vecchiaja. Nell' Eneide, il giovine e bravo Turno difende la sua amante che uno straniero gli vuol rapire. Egli soccombe, ma con gloria, in siffatta intrapresa degna d' un amante e degna d'un re. Trovasi dunque in queste due opere un fondo d' interesse pei vinti, che quello diminuisce che si può prendere pei vincitori. All' opposito, nella Gerusalemme Liberata, l'armata Cristiana marcia ad un acquisto che la sua religion le comanda; va essa a li

berare il sepolcro del suo Dio; e di più, il re ch' essa assale è un vecchio tiranno sospettoso e crudele, odiato dai sudditi suoi, e che si vede per conseguenza con piacere sbalzare dal trono. Tutto l'interesse è dunque dal canto dei Cristiani e di Goffredo che li conduce.

L'azione è cominciata appena, che il consiglio infernale già si raduna. Il gran nemico dà i suoi ordini ai socj del suo delitto e della sua caduta. Partono essi per eseguirli e si spargono in diverse regioni, ové mettonsi a fabbricar degl' inganni e degli ostacoli nuovi, a dispiegare infine tutte le astuzie dell'inferno. Il più dotto di cotali genj malvagj è quegli che inspira il mago Idraotte, re e tiranno di Damasco. Idraotte ha nella sua nipote Armida un'abile e pregiudicevole allieva, la bellezza la più perfetta dell' oriente, e che non ignora alcun dei secreti della magia, nè del suo sesso. Egli la invia nel campo de' Cristiani, dopo d' averle dato le sue istruzioni. Tosto ivi comparsa, il campo è in fuoco. Ella ne esce conducendo seco il fiore dei capi dell' armata che fa suoi schiavi, e ch'indi sono messi tra ferri. Il solo Rinaldo le ha resistito. Ha fatto anche più; ha liberato i suoi prigionieri spediti da essa in Egitto sotto una scorta che credeva sicura. Un tale insulto irrita il suo orgoglio; ella più non respira che la vendetta. Tende a Rinaldo degli agguati, ove le riesce di attirarlo: nè son già le catene che a lui destina, è un pugnale, è la morte. Ma nel momento di ferire, è tocca dalla beltà

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