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si soverchiano a vicenda e si rincontrano poi dentro la terra, rabboniti in una gola sola. Il loro cammino verticale è preceduto da una specie d'antrone orizzontale ed alto, a tre ordini, rientranti l'uno nell' altro. E poi giù nel buio fino alla galleria trasversale. Il cunicolo maggiore, secondo una lapide trovata nell'Emissario, dovrebbe essere decorato con colonne e con arco di pietra, e dovrebbe avere davanti, sullo spianato, una grossa statua di Ercole. La decorazione e il dio sono scomparsi, ma l'immagine della forza vi resta solenne.

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Avvicinando si sembra d'essere davanti ad una enorme tomba d'aria. Un leggero vento corre all'imbocco per farsi più fresco verso il fondo, sull'acqua che fugge. Le pietre del muro reticolato mostrano le punte acute indifferenti ai secoli ed alla lotta che si combatte ogni istante intorno a loro; i piccoli mattoni rossicci posano tranquillamente a strati sottili, interrompono la tinta scura della pietra, e modestamente rinsaldano le mura già salde. Intorno all'ammasso dei tre colossi uniti striscia qualche gracile tralcio gialliccio, qualche sarmento spinoso di rovo che s'abbarbica al muro, sul dorso della volta e all'imbocco come per contrastarne l'entrata. Più in là, a pochi passi, torna la montagna sassosa grigia e gialla. E non v'è pianta che v'alligni: sulla terra maledetta che accolse lo strazio del lavoro schiavo, del lavoro cambiato in eterna pena, non cresce quiete di verde, ricchezza di fuoco e di pane!

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Il Salviano, così brullo e basso, è schiacciato molto ai fianchi. Trentadue cunicoli lo penetrano fino in fondo attaccandolo perpendicolarmente nelle parti basse, e obliquamente in alto per evitare la cima troppo lunga a vincersi. E la via nascosta

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dell'acqua è segnata dalla loro fila discontinua al sole. La maggior parte delle bocche sono rinterrate, e la via scura s'immagina tutta guardando il principio il grosso delle tre ancora scoperte e la fine. La salita si compie facilmente per un viottolo; e di lassù, da una parte si vede Fùcino pezzato di verde e d'oro, dall'altra i campi Palentini sacri alla dea Pale ed ai suoi pastori, tutto un campo giallo di frumento segato.

Tre mietitori in cammino per altri paesi ricchi di messi più che di braccia, m'insegnano la strada dalla parte dello sbocco, verso la gola di Capistrello, per giungere presto al cunicolo detto della Macchina, profondo ottanta metri soltanto, che mi dovrà far rivedere l'acqua color d'acciaio che salutai nel Collettore, nel Bacino e nei gorghi dell'Incile.

Si arriva presto. Sul posto non v'è più ombra di macchina. Una serie di magazzini rustici e un ampio recinto riattato di fresco segnano il posto occupato un

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giorno dai moderni ordegni dell'opera. Neanche l'imbocco del cunicolo si vede. Non v'è atrio maestoso e nè copertura di vôlta. Dietro la casetta scura del guardiano, una fossa rettangolare murata s'apre a fior di terra fra i tralci rigogliosi di pampini ridenti alla luce vibrata del sole limpidissimo. È l'unico praticabile, ma da molto tempo nessuno lo tenta. Scendo preceduto da un muratore armato di lucerna ad olio della foggia antica con la fiamma penzoloni e fumosa, e seguito da un altro compagno. Non sono mai stati laggiù neanche loro e son curiosi anch'essi della discesa oscura. Il cunicolo dopo poco riprende l'aspetto solito: stretto che vi passano appena due incontrandosi, alto quanto un uomo di buona statura, terminato sempre ad arco tondo. Si perde subito ogni traccia di scala ripida murata e si discende a

fatica fra i rottami mobili trattenendosi forte alle pareti. Passati ancora pochi metri non v'è più muratura. Il foro è retto dalla roccia, e le scale, logore e arrotondate dall'acqua carica di carbonati, sono anch'esse tagliate rozzamente nella pietra, alte e ripide.

Ad un punto si volta a gomito, si perde la luce confortante che giungeva dal sole come un filo, s'incontra un'altra via ormai sotterrata e si prosegue trattenendosi e frenando i salti fra i sassi freddi e scuri. Un rumore annunzia vicina la corrente come sarà mai l'ultima discesa ?... Incontriamo delle travi vecchissime, forse

MONUMENTO SOPRA L'INCILE

(Fot. Agostinoni).

dell'antica resistenza contro la roccia troppo tenera. Con maggior precauzione ci avviciniamo avanzando. in un breve andito orizzontale. Il rumore fa tremare la volta scavata senza regola. Un buio fitto fa indovinare soltanto l'acqua che ci scorre davanti, e vogliamo vederla. Accendiamo un giornale, la carta galleggia e illumina per un istante la massa rapitrice che fugge. Restiamo un momento ancora a sentire il terribile mormorio di quell'acqua dannata all'esilio che ci sembra assai più paurosa di quanto non fosse per gli abitanti delle rive spesso allagate, e riprendiamo la salita.

Il ritorno è certo più disagevole, ma la luce del sole ci attrae; il passo s'affretta per istinto e torniamo all'aperto senza fermarci mai. Abbiamo impiegato sette minuti salendo come in fuga.

Gli schiavi vi avranno impiegato il doppio col peso. Forse mezz'ora pel viaggio completo ripetuto per giornate intere, per anni interi senza posa e senza speranza.

Erano trentamila e formicolavano dapertutto: schiavi minatori tratti a forza dalle loro montagne; schiavi già provati come munitores nei cunicoli militari, stringendo le città assediate, deviando il corso delle loro acque, entrandovi di sorpresa; schiavi già capaci di difesa, già usi al suono che percoteva la roccia lontana, già pronti per i controcunicoli e le contromine e per le porte di ferro che dovevano arrestare l'audacia degl'invasori, già votati al sacrificio nella lotta senza luce, senza discernimento, senza scampo. V'erano i Galli famosi per tali opere fin dal tempo di Cesare, v'erano i minatori Belles, quelli d'Elba e di Sicilia. E fra queste vecchie talpe: i poveri contadini cresciuti al sole, gli schiavi di lusso che avevano sciupata la giovinezza nei più futili passatempi: avvertendo il padrone d'ogni ciottolo sconnesso lungo il cammino, divertendo la fine dei conviti insieme coi fanciulli e i contraffatti, seguendo i cortei padronali e le ricche dame. Per questi la pena era ancora più greve !...

In un apposito chiosco, fra l'altre cose raccolte dal principe Torlonia, si nota un bassorilievo trovato da Afan de Rivera durante i lavori d'espurgo della parte

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