Col pensier tutto lo contempla e mira: Lo palpa, e'l bacia, e 'n grembo lo si reca, Misera! che non sa quanto gran Dio S'annidi in seno. Ei de la madre intanto Rimembrando il precetto, a poco a poco De la mente Sichéo comincia a trarle, Con vivo amore e con visibil fiamma Rompendole del core il duro smalto, E'ntroducendo il suo già spento affetto. Cessati i primi cibi, e da' ministri
Già le mense rimosse, ecco di nuovo Comparir nuove tazze e vino e fiori, Per lietamente incoronarsi e bere.
Quinci un romoreggiare, un riso, un giubilo, Che d'allegrezza empían le sale e gli atrii, 1175 E i torchi e le lumiere che pendevano
Da i palchi d'oro, poichè notte fecesi, Vinceano 'l giorno e'l Sol, non che le tenebre.
Haeret, et interdum gremio fovet; inscia Dido, Insidat quantus miserae Deus! At memor ille Matris acidaliae, paulatim abolere Sychaeum 720 Incipit, et vivo tentat praevertere amore Iampridem resides animos desuetaque corda. Postquam prima quies epulis, mensaeque remotae: Crateras magnos statuunt, et vina coronant. Fit strepitus tectis, vocemque per ampla volutant Atria: dependent lychni laquearibus aureis Incensi, et noctem flammis funalia vincunt.
Qui fattosi Didone un vaso porgere D'oro grave e di gemme, ov'era solito Ne' conviti e ne' dì solenni e celebri
Ber Belo, e gli altri che da Belo uscirono:
Di fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo
Orò così dicendo: Eterno Giove,
Che, albergator nomato, hai de gli alberghi 1185 E de le cortesie cura e diletto,
Priegoti ch'a' Fenici ed a' Troiani
Fausto sia questo giorno, e memorando Sempre a' posteri loro. E te, Liéo,
Largitor di letizia; e te, celeste
E buona Giuno, a questa prece invoco. Voi co' vostri favori e Tirii e Peni
Prestate a'prieghi miei divoto assenso. Ciò detto, riversollo, e lievemente
Del sacrato liquor la mensa asperse,
Poscia ella in prima con le prime labbia
Hic regina gravem gemmis auroque poposcit, Implevitque mero pateram: quam Belus, et omnes A Belo soliti. Tum facta silentia tectis: lupiter, hospitibus nam te dare iura loquuntur, Hunc laetum Tyriisque diem, Troiaque profectis Esse velis, nostrosque huius meminisse minores. Adsit laetitiae Bacchus dator, et bona Iuno: Et vos, o, coetum, Tyrii, celebrate faventes. Dixit, et in mensam laticum libavit honorem, Primaque, libato, summo tenus attigit ore.
Tanto sol ne sorbì quanto n' attinse. Indi con dolce oltraggio e con rampogne A Bizia il diè, che valorosamente A piena bocca infino a l'aureo fondo Vi si tuffò col volto, e vi s' immerse. Ciò seguír gli altri Eroi. Comparve intanto Co' capei lunghi e con la cetra d'oro
Il biondo Iopa; e, qual Febo novello, Cantò del ciel le meraviglie e i moti Che dal gran ve cchio Atlante Alcide apprese. Cantò le vie che drittamente torte Rendon vaga la luna e buio il sole:
Come prima si fer gli uomini e i bruti;
Com' or si fan le piogge e i venti ei folgori: 1210 Cantò l'Iäde e l'Orse e 'l Carro e 'l Corno, E perchè tanto a l'Océano il verno Vadan veloci i dì, tarde le notti. Un novo plauso incominciaro i Tirii:
Tum Bitiae dedit increpitans: ille impiger hausit Spumantem pateram, et pleno se proluit auro. Post alii proceres. Cithara crinitus lopas Personat aurata, docuit quae maximus Atlas. Hic canit errantem lunam, solisque labores; Unde hominum genus et pecudes; unde imber et ignes; Arcturum, pluviasque Hyadas, geminosque Triones ; Quid tantum Oceano properent se tingere soles Hiberni, vel quae tardis mora noctibus obstet. Ingeminant plausu Tyrii, Troesque sequuntur.
Seguiro i Teucri; e l'infelice Dido Che già fea dolce con Enea dimora, Quanto bevesse amor non s'accorgendo; A lungo ragionar seco si pose
Or di Priamo, or d'Ettorre, or con qual' armi Venisse a Troia de l'Aurora il Figlio, Or qual fosse Diomede, or quanto Achille. Anzi, se non t'è grave, al fin gli disse, Incomincia a contar fin da principio E l'insidie de' Greci, e la ruina E l'incendio di Troia, e 'l corso intero De gli error vostri: già che 'l settim' anno E per terra e per mar raminghi andate.
Nec non et vario noctem sermone trahebat Infelix Dido, longumque bibebat amorem; Multa super Priamo rogitans, super Hectore multa: Nunc, quibus Aurorae venisset filius armis; Nunc, quales Diomedis equi; nunc, quantus Achilles · Imo age, et a prima dic, hospes, origine nobis Insidias, inquit, Danaum, casusque tuorum, Erroresque tuos: nam te iam septima portat Omnibus errantem terris et fluctibus aestas.
Questa veduta rappresenta il sito non piano su cui fu Cartagine antica, e dove i Romani fabbricarono la nuova. Vedesi a destra sporgente in mare la punta nord-est, circondata anticamente da altissime mura. Alla sinistra sua prolungasi una collina di tre eminenze; ivi era la più antica parte della città, con il castello Birsa. Anticamente sulla più alta cima eravi il tempio di Esculapio, e al di là di tale collina, sulla non visibile costa dell' ovest, fu poscia costrutta una parte di Megara, o Magalia nuova città, secondo Isid. Etym. XV. 12). In mezzo vedesi la lingua di terra chiamata Taenia, su cui vi sono tuttora alcune tracce di fortificazioni: dietro a questa havvi il lago grande, Stagnum magnum; più lungi verso Tunisi, a sinistra, due piccoli forti chiamati le Golette. Fu costrutta l'antica città da genti di Tiro verso l'anno 848, e fu distrutta nel 148. avanti G. C.
Ruine di un acquedotto romano vicino alla nuova Cartagine, costrutto da Giulio Cesare e da Augusto Ottaviano; è posto all' ovest della grande muraglia dell'antica città dalla parte di Tunisi.
Il dinanzi mostra un portico della moderna città di Scilla, l'antica Scyllaeum, o Scilla. A traverso di esso portico si presenta una veduta sorprendente del terribile scoglio
« PreviousContinue » |