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Hai tu visto, lettor per gli spedali,
Quando il chirurgo va col gammautte
A tagliar porri, e fignoli e cotali
Morbi che fanno gonfiature brutte,
E giù la marcia piovene a boccali,
Onde si ammollan le lenzuola asciutte?
Tale ti pensa a giusta proporzione
Il rospo aperto sopra il pettignone.

Fece un lago di marcia assai più vasto,
Che non è quel di Bientina e Fucecchio.
Ed annegato vi saria rimasto,

Ma in sì gran spazio non alzossi un secchio :
La fera intanto per quell' aspro tasto
Rabbiosa sollevò sopra l'orecchio,

Due lunghi corni che un si fatto arnese
Hanno i rospacci di quel reo paese.

E ritta sulle due zampe di dietro,
Con la bocca più larga di sei forni,
E con gli occhiacci lustri come vetro,
Lo qual di dietro una gran face adorni,
(Ma face da mortorio e da feretro)
Con urli che parean campane e corni,

Lo aggraffigna e lo inghiotte (ahi caso crudo ! )
Col cavallo, con l'armi o collo scudo.

Pensate or voi se si rimase brutto

Il povero Rinaldo a quel boccone.
Fortuna, che trovò il corpaccio asciutto
Per quella piaga sopra al pettignone:
Pur si rinfranca, e invigorito tutto,
Il suo buon Vegliantin batte di sprone,
E corre a tutta briglia la gran pancia,
E pel cul gli esce il paladin di Francia.
Si volse a rimirar ciò che stato era
Il rospo; ed in quell' atto ne la fronte
Gli diè Rinaldo tal percossa fiera,
Che fe' di sangue altro che fiume o fonte;
E restò morto. Ma dell' altra fiera,
Chi dirà l'ira e i fieri oltraggi e l'onte?
Ella ha una pelle grossa un braccio e più,
Tutta d'acciaio guardilo Gesù.

La giovinetta misera e dolente,
In parte rallegrata in veder morta
La spaventosa belva puzzolente,

Or che vede in quest' altra esser risorta
La morta suora, e far lei più possente,
Si tapina, s'affanua e si sconforta,
E teme con ragion che non prevaglia
Il suo campione in quest' altra battaglia ;
E fa preghiera e voti ad Apollino,
Che salvi lui in così dura guerra.
Rinaldo intanto sovra l'acciar fino
Dà con Fusberta e colpo mai non erra:
Ma che far può senza aiuto divino?
Opra questa non è da uom di terrà;
Onde ascolta dal ciel voce che dice:
Sbarba, campion di Dio, quella radice

Che ha poche foglie e statti al destro lato ;
E quando apre la sua terribil bocca,
E tu la scaraventa nel palato;
E subito vedrai che così tocca
Verralle un sonno sì spropositato,
Che non la desteria cannon di rocca ;
Allor gl' immergi la pungente spada
Nell'occhio manco, e non più stare a bada.
Rinaldo corre presto alla radice;
La svelse, ed a quel rospo l'accostoe,
E fece come l'Angelo gli dice:
Giù nel palato la scaraventoe.

S'addormenta la bestia, e fa felice
Col suo dormir Rinaldo che montoe
Sopra il gran rospo, e valoroso e franco
La spada gli cacciò nell' occhio manco;
E subito morì quella bestiaccia
Tanto crudele, dolorosa, infame.

Questa non breve narrazione, basti, o giovani, a spiegazione del pensier nostro, e a darvi nel medesimo tempo un saggio della maniera tenuta dal Fortiguerri.

Senonchè sciaguratamente quel difetto medesimo, che dovemmo compiangere nei poemi romanzeschi, e nell'Ariosto, è comune anche all'ultimo dei poeti in questo genere, benchè la cresciuta civiltà dei tempi, la condizione propria e quella delle persone a cui leggeva le stanze del Ricciardetto, consentirglielo non dovessero mai. Il Fortiguerri con una licenza da libertino scherza intorno alle più sacre cose, e si giova delle scene più disoneste per rallegrare la nobile brigata, cui recitava le sue bizzarre invenzioni. Ciò fa poco onore ai costumi e alla moralità dell'autore, come a quella degli ascoltanti, che pure egli chiama il fior d'Italia; e se vero è che un Papa negogli il cappello cardinalizio avendo avuto sentore del suo Ricciardetto, avvenimento per cui l'autore moriva di cordoglio, è da dolere che e' si lasciasse vincere dall' ambizione; ma quel Papa aveva ragione. Probabilmente l'autore del Ricciardetto sarebbe riuscito un cattivo cardinale di santa Chiesa.

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Nell'età dell' Ariosto, o giovani, la bieca politica

dei gabinetti, ancor non aveva cosiffattamente spenta ogni scintilla dell' antico spirito cavalleresco, che non si vedessero a quando a quando rinnovare le scene dei romanzi della Tavola rotonda, e alcuni principi non si studiassero di restaurare nelle corti

il codice de' personaggi di Turpino. La sfida di
Carlo V e di Francesco I, per esempio; le famose
battaglie combattute da questi nel Milanese, le ge-
sta di Baiardo, il cavaliero senza macchia, i tor-
nei, le giostre e le corti bandite, tenute dai si-
gnori di quel tempo, non ritraevano qualche cosa
di quelle antiche avventure, descritte nei poemi e
nelle leggende del Medio Evo e dei Reali di Fran-
cia? Ad onta di questo però sarebbe ridicolo l'im-
maginare che in tanta luce di studi potessero del
tutto rivivere quelle bizzarre costumanze,
e che
fra gli intrighi e le gare di dominio e le subdole
arti di regno, di cui era sì schifosamente maestro
Carlo medesimo, si avessero in pregio quelle pazze
generosità dei prischi cavalieri, i quali facevano
gitto d'una corona per un puntiglio, e periglia-
vano la vita per una parola. L' Ariosto medesimo
come già stupito della cortesia dei campioni da se
descritti, esclamava :

O gran bontà dei cavalieri antiqui!
Eran rivali, eran di fè diversi ;
E si sentian de gli aspri colpi iniqui
Per tutta la persona anco dolersi;
E pur per selve oscure e colli obliqui
Insieme van senza sospetto aversi.

L'epopea romanzesca pertanto non ritraendo più la vita reale del tempo, veniva quindi, come sopra dicemmo, declinando, e mano mano dischiudevasi una via nuova per cangiarsi nell' epopea, che noi diremo o classica o storica, se meglio vi talenta.

Questo mutamento era ben naturale e ragionevole. Nel Cinquecento si avverava quello che era molto innanzi accaduto nella Grecia; imperocchè certi principii costantemente si riproducono, ri

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