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Queste son le cagion che 'l campo io lassi; | Quel mi rendè ch'è vie men caro e degno,
Fuggo le imperïose altrui richieste; Ma s'usurpò del core a forza il regno.
Schivo ed abborro in qualsivoglia modo
Contaminarmi in atto alcun di frodo.

90.

Queste son le cagion, ma non già sole. E qui si tacque, e di rossor si tinse, E chinò gli occhi, e l'ultime parole Ritener volle, e non ben le distinse. Lo scudier, che da lei ritrar pur vuole Ciò ch' ella vergognando in sè ristrinse: Di poca fede, disse, or perchè cele Le più vere cagioni al tuo fedele?

91.

Ella dal petto un gran sospiro apriva, E parlava con suon tremante e roco: Mal guardata vergogna intempestiva, Vattene omai; non hai tu qui più loco: A che pur tenti, o invan ritrosa e schiva, Celar col foco tuo d'amore il foco? Debiti fur questi riguardi innante; Non or, che fatta son donzella errante.

92.

Soggiunse poi: La notte a me fatale, Ed alla patria mia che giacque oppressa, Perdei più che non parve; e'l mio gran male Non ebbi in lei, ma derivò da essa. Leve perdita è il regno; io col regale Mio alto stato anco perdei me stessa, Per mai non ricovrarla; allor perdei La mente, folle, e 'l core e i sensi miei.

93.

Vafrin, tu sai che timidetta accorsi, Tanta strage vedendo e tante prede, Al tuo signore e mio, che prima i' scorsi Armato por nella mia reggia il piede; E, chinandomi a lui, tai voci porsi: Invitto vincitor, pietà, mercede! Non prego io te per la mia vita; il fiore Salvami sol del virginale onore.

94.

Egli, la sua porgendo alla mia mano, Non aspettò che 'I mio pregar fornisse: Vergine bella, non ricorri invano; Io ne sarò tuo difensor, mi disse.. Allora un non so che söave e piano Sentii, ch' al cor mi scese, e vi s' affisse, Che, serpendomi poi per l'alma vaga, Non so come, divenne incendio e piaga.

95.

Visitommi egli spesso, e, in dolce suono Consolando il mio duol, meco si dolse. Dicea: L'intera libertà ti dono:

E delle spoglie mie spoglia non volse.
Oimè! che fu rapina, e parve dono;
Chè, rendendomi a me, da me mi tolse.

91.- Così Medea nell'Argonaut. di Apollon., Rod., III: < Addio, pudore; addio bellezza. >

94. v. 5-8. Virg., En., IV, 66: « . . . . Est mollis flamma medullas Interea, et tacitum vivit sub pectore vulnus; Uritur infelix. >

96.

Male amor si nasconde. A te sovente Desïosa i' chiedea del mio signore. Veggendo i segni tu d'inferma mente: Erminia, mi dicesti, ardi d' amore. Io tel negai; ma un mio sospiro ardente Fu più verace testimon del core; E, in vece forse della lingua, il guardo Manifestava il foco onde tutt' ardo.

97.

Sfortunato silenzio! avessi io almeno Chiesta allor medicina al gran martire; S'esser poscia dovea lentato il freno, Quando non gioverebbe, al mio desire. Parti'mi in somma, e le mie piaghe in seno Portai celate, e ne credei morire. Alfin, cercando al viver mio soccorso, Mi sciolse amor d'ogni rispetto il morso:

99.

Si che a trovarne il mio signor io mossi, Ch'egra mi fece, e mi potea far sana. Ma tra via fero intoppo attraversossi Di gente inclementissima e villana. Poco mancò che preda lor non fossi; Pur in parte fuggi'mi erma e lontana; E colà vissi in solitaria cella, Cittadina di boschi e pastorella.

99.

Ma, poi, che quel desio che fu ripresso Alcun di per la tema, in me risorse, Tornarmi ritentando al loco stesso, La medesma sciagura anco m' occorse. Fuggir non potei già; ch'era omai presso Predatrice masnada, e troppo corse. Cosi fui presa: e quei che mi rapiro, Egizi fur, che a Gaza indi sen giro;

100.

E 'n don menârmi al capitano, a cui
Died'io di me contezza, e 'l persuasi
Si, ch'onorata e invïolata fui
Que' di che con Armida ivi rimasi.
Così venni più volte in forza altrui,
E men sottrassi. Ecco i miei duri casi.
Pur le prime catene anco riserva
La tante volte liberata e serva.
101.

Oh pur colui che circondolle intorno
All'alma si che non fia chi le scioglia,
Non dica: Errante ancella, altro soggiorno
Cércati pure: e me seco non voglia!
Ma pietoso gradisca il mio ritorno,
E nell'antica mia prigion m'accoglia.
Così diceagli Erminia: e insieme andaro
La notte e 'l giorno ragionando a paro.

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103. v. 6. Il vestir bruno. Il colore cioè della cotta d'armi o sopravveste, la quale finge il Poeta che Tancredi portasse bruna. [M.]

104. v. 8. Non scese, no. Racconta il Serassi, ch' era fama costante in Roma, passata di mano in mano sino a letterati suoi contemporanei, che, non avendo mai trovata il Tasso una maniera che gli soddisfacesse per esprimere la prestezza con cui Erminia scese di cavallo, nel trattenersi un dì con certi suoi amici alla riva TASSO.

Che più caldi sperai, vo' pur rapire:
Parte torrò di sue ragioni a Morte,
Baciando queste labbra esangui e smorte.

108.

Pietosa bocca, che solevi in vita Consolar il mio duol di tue parole, Lecito sia ch'anzi la mia partita D'alcun tuo caro bacio io mi console: E forse allor, s'era a cercarlo ardita, Quel davi tu, ch'ora convien che invole. Lecito sia ch'ora ti stringa, e poi Versi lo spirto mio fra i labbri tuoi.

109.

Raccogli tu l'anima mia seguace; Drizzala tu dove la tua sen gio. Così parla gemendo, e si disface Quasi per gli occhi, e par conversa in rio. Rivenne quegli a quell'umor vivace, E le languide labbra alquanto aprio; Apri le labbra, e con le luci chiuse Un suo sospir con que' di lei confuse.

110.

Sente la donna il cavalier che geme; E forza è pur che si conforti alquanto: Apri gli occhi, Tancredi, a queste estreme Esequie, grida, ch' io ti fo col pianto; Riguarda me, che vo' venirne insieme La lunga strada, e vo' morirti accanto. Riguarda me; non ten fuggir si presto: L'ultimo don ch'io ti dimando è questo.

111.

Apre Tancredi gli occhi, e poi gli abbassa Torbidi e gravi: ed ella pur si lagna. Dice Vafrino a lei: Questi non passa; Curisi adunque prima, e poi si piagna. Egli il disarma; ella tremante e lassa Porge la mano all' opere compagna: Mira e tratta le piaghe; e, di ferute Giudice esperta, spera indi salute.

112.

Vede che 'l mal dalla stanchezza nasce, E dagli umori in troppa copia sparti. Ma non ha fuor ch'un velo, onde gli fasce Le sue ferite in si solinghe parti. Amor le trova inusitate fasce, E di pietà le insegna insolite arti: Le asciugò con le chiome, e rilegolle Pur con le chiome, che troncar si volle;

113.

Però che 'l velo suo bastar non puote,

del Tevere, vide venire a briglia sciolta dalla strada del Popolo un giovane incauto, e cader precipitosamente di sella presso la chiesa di San Rocco: alla cui vista gli venne fatto improvvisamente questo bel verso. (Serassi, Vita del Tasso, vol. I, pag. 292. Ed. Barbèra.)

112. v. 7-8. - E rilegolle Pur con le chiome, che troncar si volle. «È affettato e poco conveniente, e Vafrino aveva il turbante. Così una postilla a questi versi nel Ms. Galvani, tutto di pugno del P., a giudizio del Cavedoni.

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Non alle tende mie, vo' che si vada;
Chè se umano accidente a questa frale
Vita sovrasta, è ben ch'ivi m'accada;
Chè 'l loco ove mori l' Uomo immortale,
Può forse al cielo agevolar la strada:
E sarà pago un mio pensier devoto,
D'aver peregrinato al fin del voto.

119.

Disse: e, colà portato, egli fu posto Sovra le piume; e 'l prese un sonno cheto. Vafrino alla donzella, e non discosto, Ritrova albergo assai chiuso e secreto. Quinci s'invia dov'è Goffredo: e tosto Entra; chè non gli è fatto alcun divieto; Sebben allor della futura impresa In bilance i consigli appende e pesa.

120.

Del letto, ove la stanca egra persona Posa Raimondo, il Duce è su la sponda; E d'ogn' intorno nobile corona De' più potenti e più saggi il circonda. Or, mentre lo scudiero a lui ragiona, Non v'è chi d'altro chieda, o chi risponda Signor, dicea, come imponesti, andai Tra gl' Infedeli, e 'l campo lor cercai.

121.

Ma non aspettar già che di quell'oste L'innumerabil numero ti conti. I' vidi ch' al passar, le valli ascoste Sotto e' teneva, e i piani tutti e i monti: Vidi che dove giunga, ove s'accoste, Spoglia la terra, e secca i fiumi e i fonti; Perchè non bastan l'acque alla lor sete. E poco è lor ciò che la Siria miete.

122.

Ma si de' cavalier, si de' pedoni Sono in gran parte inutili le schiere: Gente che non intende ordini o suoni, Nè stringe ferro, e di lontan sol fere. Ben ve ne sono alquanti eletti e buoni, Che seguite di Persia han le bandiere; E forse squadra anco migliore è quella Che la squadra immortal del re s'appella.

123.

Ella è detta immortal, perchè difetto

Ma pria contar ne la deserta piaggia Potrei l'arene e 'n mar turbato l'onde; E qual degli alti boschi a terra caggia Numero de le sparse aride fronde; Che quel di tante schiere a narrar v'aggi Sotto a' cui piè la terra ampia s'asconde, E sotto le gran tende il Ciel s' adombra; Tanto di spazio ivi per lor s'ingombra. > 121. v. 1-4. Conq.: <Io vidi nel passar l'orribil oste Quasi occupare il loco a' salsi flutti, Mentre le piagge e le campagne ascoste Ella teneva ei piani e i colli tutti. » 122. v. 6. - Conq.:

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