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Fidando assai nelle veloci piante:
E'lsa Clorinda teco, ed io con questi;
Ch'un più dell' altro non convien si vante.
Nè incolpo alcuno io già; chè vi fu mostro
Quanto potea maggiore il valor nostro.

46.

E dirò pur, (benchè costui di morte Bieco minacci, e 'l vero udir si sdegni) Veggio portar da inevitabil sorte Il nemico fatale a certi segni ; Ne gente potrà mai, nè muro forte Impedirlo così, ch'alfin non regni. Ciò mi fa dir (sia testimonio il Cielo) Del signor, della patria amore e zelo.

47.

Oh saggio il re di Tripoli, che pace (me!
Seppe impetrar dai Franchi e regno insie-
Ma il Soldano ostinato o morto or giace,
O pur servil catena il piè gli preme;
O nell'esilio, timido e fugace,

Si va serbando alle miserie estreme:
E pur, cedendo parte, avria potuto
Parte salvar co'doni e col tributo.
48.

Così diceva, e s'avvolgea costui
Con giro di parole obliquo e incerto;
Ch'a chieder pace, a farsi uom ligio altrui
Già non ardia di consigliarlo aperto.
Ma sdegnoso il Soldano i detti sui
Non potea omai più sostener coperto;
Quando il mago gli disse: Or vuoi tu darli
Agio, signor, che 'n tal maniera parli?

49.

Io per me, gli risponde, or qui mi celo Contra mio grado, e d'ira ardo e di scorno. Ciò disse appena; e immantinente il velo Della nube, che stesa è lor d'intorno, Si fende, e purga nell' aperto cielo; Ed ei riman nel luminoso giorno, E magnanimamente in fiero viso Rifulge in mezzo, e lor parla improvviso:

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50.

Io, di cui si ragiona, or son presente, Non fugace e non timido Soldano; Ed a costui, ch'egli è codardo, e mente, M'offero di provar con questa mano. Io, che sparsi di sangue ampio torrente, Che montagne di stragi alzai sul piano, Chiuso nel vallo de' nemici, e privo Alfin d'ogni compagno, io fuggitivo?

51.

Ma se più questi, o s'altri a lui simile, Alla sua patria, alla sua fede infido, Motto osa far d'accordo infame e vile, Buon re, sia con tua pace, io qui l'uccido. Gli agni e i lupi fian giunti in un ovile, E le colombe e i serpi in un sol nido, Prima che mai di non discorde voglia Noi co' Francesi alcuna terra accoglia.

52.

Tien su la spada, mentre ei sì favella, La fera destra in minaccevol atto. Riman ciascuno, a quel parlare, a quella Orribil faccia, muto e stupefatto. Poscia con vista men turbata e fella Cortesemente inverso il re s'è tratto: Spera, gli dice, alto signor; ch' io reco | Non poco aiuto: or Solimano è teco.

53.

Aladin, ch'a lui contra era già sorto, Risponde: Oh come lieto or qui ti veggio, Diletto amico! or del mio stuol ch'è morto, Non sento il danno; e ben temea di peggio. Tu lo mio stabilire, e in tempo corto Puoi ridrizzare il tuo caduto seggio, Se 'l Ciel nol vieta. Indile braccia al collo, Così detto, gli stese, e circondollo.

54.

Finita l'accoglienza, il re concede Il suo medesmo soglio al gran Niceno. Egli poscia a sinistra in nobil sede Si pone, ed al suo fianco alluoga Ismeno:

mille die victor sub tartara misi Inclusus muris, hostilique aggere septus. || 7-8. Conq.: <... orrido in faccia

Rifulge in mezzo, e in atto ancor minaccia. > 51. v. 5 6. — Virg., Eg.: Ante lupos rapient hædi, vituli ante leones, Delfini fugient pisces, aquila ante columbas. » E Oraz.: «Sed prius Appulis Jungentur capræ lupis.» || 8. « Noi co`latini.»

53. v. 5-6. Tu il mio regno salvando in tempo corto, Crollar de' Franchi puoi l'altero seggio. > | 7-8. Virg., En., VIII, 124: Excepitque manu, dextramque amplexus inhæsit. »

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Virg., En, VIII, 177: Præcipuumque toro et villosi pelle leonis Accipit Encan, solioque invitat acerno. » Conq.: << Cosi parlava a Soliman Ducalto Di pensier, di fastidii e d'anni pieno. Quando inchinollo il nobile Amoralto, (Come predetto avea l'antico Ismeno) Ch'arme ancor non vesti per fero assalto.

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62. v. 1-2. <Questo è lo stagno, in cui di saldo e grave Nulla si gitta mai che giunga al basso. »

I colori di questa descrizione e dell'altra più diffusa da noi riportata sulla fine del Canto V, sono presi da Tacito, Histor. V, 7, e massime dal lib. V, cap. V, della Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio del quale diamo il seguente passo in un

56. v. 3-4. Dante, Purg., VI, 65. « Guardando antico volgarizzamento italiano, degnissimo di A guisa di leon quando si posa. >

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Dante, Purg., III, 8: « O coscienza dignitosa e netta, Come t'è picciol fallo amaro mor50! 7-8. Conq.:

Alfin del suo rossor tutto vermiglio,

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Ruppe Guasco il silenzio, alzando il ciglio: > 61. v. 1-2.- Dante, Inf., XIV,28: «Sovra tutto 'l sabbion d'un cader lento Piovean di fuoco dilatate falde. 1-8. Vida, Crist.: Qua calet Asphaltis flammis infamibus unda Ingentesque palus ad cœlum exæstuat æstus Aera contristans graveolenti sulfuris aura. Quondam hic læta seges, riguisque rosaria campis Nunc stat ager dumis, obductaque sentibus aura, Crimen, amor malesuade, tuum. || 7. Conq.: Volge e gira.» E grave il lezzo spira. >

S.

essere, più che non sia, conosciuto: « Stimo che sia cosa degna a raccontar la natura del lago Asfaltide; imperocchè gli era salso e sterile, ed era di tal natura, che quelle cose v'erano gittate dentro, benchè le fussino gravissime, nondimeno leggerissime. E non ch'altro, ma chi avesse votornavano sopra all'acqua, come se fussino state

luto attuffarsi a sommo studio infino al fondo, non arebbe potuto, se non con difficultà. E che fusse vero si provava per questo, cioè che Vospasiano il quale era andato per vederlo, fece pigliare alquanti che non sapevano notare, e fece loro legare le mani didietro e dipoi gittar veli dentro nel più profondo che v'era: e nondimeno incontinente tornarono su a galla, come se fussino stati respinti in su per forza di fiato. Oltre a questo, la terra del detto lago era di mirabil colore e vario, con ciò fosse cosa che ella mutasse la superficie di giorno in giorno: e percossa dalli raggi del sole risplendeva variamente.

Ma in guisa pur d'abete o d'orno leve
L'uom visornuota e 'l duro ferro e 'I sasso.
Siede in esso un castello; e stretto e breve
Ponte concede a'peregrini il passo.
Ivi n'accolse: e, non so con qual arte,
Vaga è là dentro e ride ogni sua parte.

63.

V'è l'aura molle, e 'l ciel sereno, e lieti Gli alberi e i prati, e pure e dolci l'onde; Ove tra gli amenissimi mirteti Sorge una fonte, e un fiumicel diffonde; Piovono in grembo all'erbe i sonni queti Con un söave mormorio di fronde; Cantan gli augelli: i marmi io taccio e l'oro, Meravigliosi d'arte e di lavoro.

64.

Apprestar su l'erbetta, ov'è più densa L'ombra, e vicino al suon dell'acque chiare, Fece di sculti vasi altera mensa, E ricca di vivande elette e care. Era qui ciò ch' ogni stagion dispensa, Ciò che dona la terra, o manda il mare, Ciò che l'arte condisce; e cento belle Servivano al convito accorte ancelle.

65.

Ella d'un parlar dolce e d'un bel riso Temprava altrui cibo mortale e rio. Or, mentre ancor ciascuno a mensa assiso Beve con lungo incendio un lungo obblio, Sorse, e disse: Or qui riedo. E con un viso Ritornò poi non si tranquillo e pio: Con una man picciola verga scote; Tien l'altra un libro, e legge in basse note.

66.

Legge la maga; ed io pensiero e voglia Sento mutar, mutar vita ed albergo. (Strana virtù!) novo piacer m'invoglia: Salto nell'acqua, e mi vi tuffo e immergo.

con

E più che il detto lago mandava fuori zolle di bitume, le quali notavano sopra l'acqua, e parevano simili e per abito e per grandezza a tori senza capo. E quando quelli che le andavano cercando s'abbattevano a loro, le tiravano alle navi e mettevanle dentro; e poichè ve n'avevano messo quanto era di bisogno, e che e' ne le volevano cavare e spiccare, non potevano; tanto era tenace il detto bitume: anzi pendeva la nave da quel lato donde egli era, quasi come se ella si fosse ripiegata; e stava a quel modo infino a tanto che lo dissolvevano col mestruo e l'orina della femina. Questo bitume era utile non solamente alla commettitura delle navi, ma eziandio alla curazione delli corpi, e mescolavasi con molti rimedii. Il detto lago... s'allargava infino appresso alla terra Sodomitica, fortunata per addietro così per li frutti come per la sustanzia della città; ma ora è tutta disfatta; e dicesi essere arsa e dibruciata dalle saette che vi caddeno da cielo per li peccati degli abitatori. Finalmente vi si vedevano ancora le reliquie del fuoco sacro, e le forme delle cinque città che vi perirono, e la cenere che continuamente rinasceva nelli frutti li quali erano simili al giglio, e quando si coglievano, si disfacevano come la

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< Cui fa vili parer l'opra e 'l lavoro. > 64. v. 7-8.

totidemque pares ætate ministri Qui dapibus men- Virg., En., I, 705: « Centum aliæ, sas onerent et pocula ponant. >

65. v. 1. Petr., Son. LXXVI, P. II: « Del più dolce parlar e dolce riso. 4. Virg., En., VI, 715: < Securos latices et longa oblivia potant. 5-8. Conq.:

<Poscia sorgendo con turbato viso
In bel vaso portò l'acqua del rio;
La qual bevuta, tutti il sonno assalse,
Schernendoci in immagini più false. »

66. v. 5-6. - Dant., Inf., XXV, 112: «I' vidi fiera ch' eran corti Tanto allungar quanto accorentrar le braccia per l'ascelle, E i duo piè de la ciavan quelle. >

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Ch'al re d'Egitto in don fra cento armati Ne conduceva inermi e incatenati.

71.

Così ce n'andavamo; e, come l'alta Provvidenza del Cielo ordina e move, Il buon Rinaldo, il qual più sempre esalta La gloria sua con opre eccelse e nove, In no s'avviene, e i cavalieri assalta Nostri custodi, e fa l'usate prove: Gli uccide e vince; e di quell'arme loro Fa noi vestir, che nostre in prima fôro.

72.

lo 'l vidi, e 'l vider questi; e da lui porta Ci fu la destra; e fu sua voce udita. Falso è il romor che qui risuona, e porta Si rea novella; e salva è la sua vita: Ed oggi è il terzo dì, che con la scorta D'un peregrin fece da noi partita Per girne in Antiochia; e pria depose L'armi, che rotte aveva e sanguinose. 78.

Così parlava; e l'eremità intanto Volgeva al cielo l'una e l'altra luce. Non un color, non serba un volto: oh quanto Più sacro e venerabile or riluce! Pieno di Dio, ratto dal zelo, accanto Alle angeliche menti ei si conduce: Gli si svela il futuro, e nell'eterna Serie degli anni e dell'età s'interna.

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<< Riprende i vizi e biasma ogni tiranno. »

|| 5. Rinaldo. Applica al finto personaggio le vere impreso di Rinaldo d'Este, figlio di Bertoldo, duce famoso del XII secolo. Venuto la terza volta in Italia Federico Barbarossa, contro lui collegaronsi Milanesi, Bresciani, Bergamaschi, Vicentini. Veronesi, Padovani, Trevigiani, Bolognesi, Modenesi e Reggiani, ed elessero a lor capitano Rinaldo. Sconfisse egli il Barbarossa, che, ferito, fu portato a Lodi. Sceso poi l'Hohenstauffen la quarta volta in Italia, e strettasi la Lega Lombarda, ne fu scelto duce l'Estense, e il Tedesco fu rotto a Legnano (1176). Alla Chiesa devotissimo, Rinaldo ne seguì sempre le parti, e la protesse o difese: onde l'Ariosto, C. III, 30: « Ecco di quel Bertoldo il caro pegno Rinaldo tuo, ch' avrà l'onore opimo D'aver la Chiesa de le man riscossa Dell' empio Federico Barbarossa. [M.]

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77.

-

Varia in tutto nella Conq. il discorso dell' ispirato Eremita; nè meglio saprei chiudere le note a questo Canto che riferendone alcuna parte:

Io pur di santa pace il santo seme
Spargo quanto m è dato, o menti sorde,
Perchè voi tutti siate unit. insieme
A l'alta impresa e d'un voler concorde.
Nè so chi tanto i frutti adugge e preme,
Ch' indi si miete odio e furor discorde.
Vinti avete i nemici, e presi i regni;
E non vincete ancora i vostri sdegni?
Fra voi pensate da mattina a terza,
Signor', le vostre colpe antiche e nove;
E vederete ben ch'ira vi sferza,
Ira del ciel, che 'l vostro sangue or piove:
El cieco Amor fra voi non ride o scherza,
Ma tutte fa le sue maligne prove;

E la sua face in Flegetonte infiamma,
Quando arder vi devria divina fiamma.

Ma tu, Signor, c' hai di pietate il pregio,
Di perdonare, in perdonando, insegna.
Scuoprir suole il buon re l'animo regio
Sospendendo la peua ov' ei si sdegna;
Perchè d'ogni altra fama è indegno il fregio,
Senza clemenza, a chi trionfa e regna;

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