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i venti tori ecc. dovean servir per più giorni. Donato, Filargirio, la Cerda e altri parecchi stanno per Munera laetitiamque dei, cioė Liberi, pretendendovi allusione al v. 734: Adsit laetitiae Bacchus dator. Per non entrare in contese, tutto s'abbraccia nella versione. v. 706.

Qui dapibus mensas onerent, Recar dapi alle mense, Ognun vede che in luogo di dapi, salvo il verso, potea metter cibi: ma dape (voce bennata e sonora, una delle mal poste quasi fuor d'uso) mi suona cibi scelti ; onde in Roma i Dapiferi del Conclave. v. 725.

Fit strepitus tectis, Strepe il palagio,

Dal veder che uso strepe dall'antico strepere, non vorrei che alcuno pensasse, che oserei valermi del pari d'altre voci di questo verbo. Va oltre il Parini. Nel celebre suo Mattino graziosamente adopra il gerundio labendo, benchè non abbia neppure infinito. v. 740.

Post ali proceres. Gli altri Grandi il seguir'. Cioè tracannaron gran tazze, come avea fatto Pizia di quella, cho la Regina gli porse increpitans, dopo averla libata sopra la mensa, e appena saggiata. Or questo proceres dall' Alfieri s'interpreta proci. Convien dire che a que' tempi le illustri vedove (o quasi vedove qual era Penelope ), benchè avverse dal legarsi a nuovo marito, usasser dar tavola a' proci, illustri anch'essi nella debita proporzione, e perciò qui magnati. Da qui s'intenderebbe meglio e la imperiosa confidenza di Didone e la costoro servile docilità.

AL LIBRO II.

v. 53.

Insonuere graves gemitumque dedere cavernae. Mi son preso l'arbitrio di trasformare con assai comoda variazione il cavae in graves. S'affanni pur quanto vuole il De la Cerda

a mostrare che il cavae cavernae è di sapor Virgiliano; ch'io per me non vi trovo che un'idea vôta. Del graves al contrario me ne dà Virgilio la traccia al v. 236 scandit fatalis machina muros Feta armís e L. VI v. 516 armatum peditem gravis attulit alvo. Armi ed armati, che al gran colpo improvviso dell'asta di Laocoonte dovean far quell' utero sonare e gemere maggiormente.

tra i v. 75 e 76

Si legge in molte edizioni: Ille haec, deposita tandem formidine, fatur. Verso che contrasta col 106: Prosequitur pavitans, et ficto pectore fatur. Lo troverai a suo luogo L. III v. 612, dove si parla d'Achemenide, uom veramente spaurito, ma confortato da Anchise. v. 135.

Delitui, dum vela darent.

Finchè desser le vele, occulto giacqui.

Tronca il Bodoni la finale si forte dedissent delle ordinarie edizioni: riempitura importuna, giacchè Sinone, per accreditar l'impostura, non dovea mostrar di temere, che per la sua fuga s'impedisse una partenza già dall'oracolo approvata; ma che al più si differisse, finchè la precedesse il sacrifizio d'un altro Greco.

v. 254.

per amica silentia lunae, muta di rai la luna, I silenzj della luna sono al dir di Plinio gl' interlunj.Ma disobblighiamo il Poeta dal rigore astronomico. Vorranno almen dire che non v'era in quell'ora chiaror lunare. Ed è perciò che diconsi cari alla Greca flotta, cioè favorevoli all'impresa di giungere inosservata. Nè altrimenti potea dirsi v. 249 ruit Oceano nox Involvens umbra magna terramque polumque, Myrmidonumque dolos.

v. 280.

Olux Dardaniae! O invitto, o lume Del Frigio suol, Quell' invitto applicato ad un Ettore, in duello ucciso da Achille, fa sentir maggiormente, che Enea sognava, non ricordandosi allora né del certame nè della morte del prode amico.

v. 338, 339.

Addunt se socios Ripeus et maximus armis Epytus, oblati per flammam, Hypanisq; Dymasq; Già Ripéo ci s'accoppia e il sommo in armi

Epito, a rai d'incendj, e Ipani e Dima

Non v'ha edizione che non porti in vece oblati per lunam. Ben so che scorso il plenilunio la luna, che non v'era di prima notte (V. nota al v. 254), può comparire, bastantemente chiara, in appresso. Ma non comparve, giacchè più sotto si dice v. 359 nox atra cava circumvolat umbra, v.396 Multaque per caecam congressi proelia noctem Conserimus, v. 419 Illi etiam, siquos obscura nocte per umbram Fudimus insidiis. Quel lume adunque era lume d'incendj (poichè Troja già ardeva v. 326 incensa Danai dominantur in urbe, v.351 Succuritis urbi Incensae), lume perciò sparso a tratti, lume che più interessa i fasti dell' Iliade che non la luna.

v. 566.

Jamq; adeo super unus eram, quum limina Vestae etc. Lasciai fuor di crochets i dieci v.da 566 a 576, perchè mi parea che legasser bene col v. 593 Nate, quis indomitas tantus dolor excitat iras! Quid furis! e col v. 600 Non tibi Tyndaridis facies invisa Lacaenae, Culpatusve Paris; ma quest' unico appiglio non dovea bastare a salvarli, quand' essi non s'abbracciano col racconto che fe' Deifobo a Enea là nell'Inferno L. VI v. 523 e seg. Come trovar Elena tutta smarrita, nascostasi per rifugio dentro il tempio di Vesta, se in quella notte medesima, simulando un coro di Frigie Baccanti, festeggiava in mezzo a loro? Come temer ella le vendette anche de' Greci, se, intesa delle loro insidie, in man tenendo una gran face, salita su d'alta torre, ne invitava essa la flotta? Come palpitar taciturna sullo sdegno dell'abbandonato consorte, se lui appunto chiamò nell'abitazion di Deifobo, mentre dormiva da lei disarmato, Scilicet id magnum sperans fore munus amanti, e se da esso e da Ulisse (andato per compagno) il fe'conciare si bruttamente?

v. 576 co' seg. fino a 588.

Questi 12 versi si sono espulsi, perchè d'uno stile anzi Lucanesco che Virgiliano. Or poi anche tolgansi, perchè han comune la sorte co' dieci antecedenti, di cui sono una troppo lunga appendice.

v. 644.

Ipse manu mortem inveniam. Man letal troverò. Per man di chi? forse mia, se n' avrò il coraggio. Ma la minaccia di suicidio è men ributtante (tanto più in faccia a' domestici ) se con equivoca espressione si faccia solo temere, che se svelatamente si esprima. Ed è perciò che della propria uccisione ne fa tosto un atto di pietà pel nemico: Miserebitur hostis.

v. 656 e 657.

Mene efferre pedem, genitor, te posse relicto
Sperasti? tantumque nefas patrio excidit ore?
Ch'io, te lasciando, osi partir, tu padre,

Sperasti? e il rio t'uscì di bocca impero?

Prendo il nefas per comando indiscreto nefando nella bocca d'un padre, non eseguibile da congiunti e molto meno da un figlio. Vos agitate fugam. Sic o, sic positum affati discedite corpus. Così inteso, congiunge, se non altro, alla rapidità la chiarezza.

v. 694.

Illam, summa super labentem culminatecti Cernimus Sul tetto accenna il suo cader, ma passa

Più di questo cenno, dato per anche in lontananza, di sua futura caduta, non può indicare il labentem. Chi sta in casa non ne vede il tetto. v. 760, 763.

Junonis asylo.... Praedam asservabant.

Quest' asilo rende improbabile che abbiano i Teucri in quell'orrida notte con felicità trafugati i più preziosi tesori delle regie Conserve (v. 64 e seg. L.I) i Ledei fregi d'Elena, gonna e manto,

e i patrii d'Ilionéa, primogenita di Priamo, collana, scettro e diadema, com' anche (v. 96, 97, 98, L. VII) gli addobbi di Priamo, scettro, tiara e toga: nol fa per altro impossibile, il che basta al poeta, a confusione di certi Critici schizzinosi.

AL LIBRO III.

v. 73 e 74.

Sacra mari colitur medio gratissima tellus etc.
Sta in mezzo al mar la sacra Delo, e a Teti
Cara, e all' Egéo Nettun, cui già natante

Di lido in lido a opposti massi avvinse,

Giaro e Micòn, l'arcier Latonio, e immota ec. Forse Virgilio scrisse Delus, non tellus; ma lasciam pure star tellus, che così circoscritta ben fa intender dal genere l'individuo. v. 97 e 98.

Hic domus AEneae cunctis dominabitur oris, Et nati natorum, et qui nascentur ab illis. Quest'oracolo d'Apollo presso Virgilio è lo stesso appunto che il presagio di Nettuno presso Omero (lib. XX, Iliad. v. 307 e 308) salva una parola; che dove Omero mise Tpsov Teucris, simula Virgilio di trovarvi Пávrov cunctis, come adotta Strabone. Dal che si rileva, che non erano i Classici così scrupolosi da volersi interdire qualunque artificiosa adulatoria menzogna.

V. 141.

tum steriles exurere Sirius agros: Arebant herbae, etc. Si avverta essere questa una lue d'altra natura da quella del L. III delle Georgiche. Quella fu originata da caldo umido (V. N. a v. 478 e 481 G. L. III ), ma questa da caldo secco. Perciò non mancavano allora boschi ombrosi, prati molli: qui è universale l'aridore,

a

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