GIO. BATISTA NICCOLINI GIOVANNI ROSINI A Voi, mio dottissimo Amico, che sì ben dimostraste quanta parte abbia il popolo nella formazione delle lingue; e con quanta difficoltà propriamente si scrivano da coloro che non le parlano; a Voi, salutato col nome di Filosofo dai vostri istessi avversarj, voglio che sieno intitolati i Dialoghi di Torquato Tasso. Vedrà l'Italia nell'onore, che in Toscana si rende ai grandi Scrittori Lombardi, con qual giustizia siamo accusati di non vantare che i nostri; e con quanta verità vada gridandosi che ci arroghiamo l'ESCLUSIVA preminenza sugli altri, nelle cose della Lingua; mentre abbiamo sempre ripetuto, e fino alla nausea, che non domandiamo altra preminenza, oltre quella, che a parità d'ingegno, e di sapere, ci diede la Natura, che nascer ci fece sulle rive dell' Arno (1). E poichè lo stesso massimo Torquato, nell'ultimo Dialogo di questo volume, chiama TOSCANA quella Poesia, della quale già da va rj anni divenuto egli era (2) il più bell' ornamento; poichè Latina si chiamò la Lingua, di cui furono i lumi poetici Virgilio e Catullo Lombardi; poichè Toscana, in questi ultimi tempi, la chiamò l'Alfieri medesimo; poichè uno de' più singolari ingegni, pur fra i Lombardi, asserì che il nostro dialetto è la Lingua (3); parmi che di buon grado potremo rimettere al tempo la cura d'una difesa maggiore (4). Ma non per questo saremo avari del giusto tributo di lode alla memoria del Conte Giulio Perticari. Rapito, nella forza dell'età quasi improvvisamente, alle Lettere, ed a maggiori speranze d'Italia, ha lasciato gli amici e gli estimatori inconsolabili di tanta perdita. Lo piangono a gara Minerva e le Muse; lo piange la Patria, di cui fu lo splendore; lo piangono desolati i parenti, di cui fu la gloria e il conforto. Felice però, nella sventura, poichè provato non avendo i morsi del livore, e dell' ira, potè godere vivendo di tutta la sua bella fama, che or chiaramente il circonda nel doloroso letto di morte; ove gli ultimi non saremo a sparger fiori d'intorno, e a pregar pace al suo cenere. III (1) Ecco le parole da me usate nella Risposta al Cavalier Monti (pag. 63 ed. sec.) « Ove sieno uguali l'ingegno, il sapere, e la pratica di scrivere, avran« no dritto d'esser preferiti nella bilancia del si può e « del non si può coloro, che vi recano in aggiunta l'uso continuo del favellare. » E così pensano tutti i savj Toscani. (2) Il Dialogo della Cavalletta, o della POESIA ToSCANA, fu dettato in S. Anna nel 1584. (3) Il celebre Giuseppe Parini così s'esprime nelle sue LEZIONI D'ELOQUENZA, Vol. VI. delle Opere, p. 154. « La favella speciale de' Toscani ebbe poscia tal predomi"nio sopra i dialetti delle altre provincie, che diven« ne la Lingua nobile comune a tutta l'Italia ». (4) Duolmi di dover tornare su vecchie cose, ma la gran reputazione dell'Autore non mi permette di lasciar senza risposta quanto il Cav. Monti ha scritto nel Volume XLI. del GIORNALE ARCADICO. Lo farò per altro quanto potrò più brevemente. Ecco le sue parole. " Un Letterato Toscano cortesemente mi accerta, « che se mi avvisassi di domandare all' erbajuola di « Mercato Vecchio poche fronde, in vece di poche foglie d'insalata, non isfuggirei la sorte di Teofrasto; che al suono della voce fu riconosciuto barbaro da « una rivendugliola Ateniese. Il paragone a dir vero ⚫ non corre su giusto piede, perchè altro è il peccare (se peccato può dirsi) nella pronunzia delle parole, « ed altro il peccare realmente nel proprio loro uso. a Dimando scusa al dottissimo Oppositore; ma v' ha chi crede altrimenti. Apro il Dialogo di Cicerone, e tro. vo ch'egli parla de quadam urbanitate, per cui Bruto gli chiede che cosa sia iste urbanitatis color? E quindi, dopo aver nominato (1) Tinca Piacentino (di cui lasciò (1) Nam duos in uno nomine faciebat barbarismos Tinca Placentinus. QUINT. Lib. 1. C. 5. scritto Quintiliano che faceva due spropositi in una sola parola) scende a narrare il caso di Teofrasto. E quantunque si possa opinare diversamente, a me pare che Cicerone, raccontandolo in quel luogo, voglia farci credere che Teofrasto mancasse nelle parole, e non nella pronunzia (1), e che, come altri scrisse, fosse riconosciuto per non Ateniese quod nimis Attice loqueretur. Aggiungerò ancora che la vecchia d'Atene gli disse Hospes, e non Barbare: ma questa è lite di civiltà; alla quale per altro non voglio, nella benchè minima parte, mancare. Per difender poi la sua frase delle fronde d'insalata, (lieve disavvertenza, da me notata con urbanissime parole) reca il C. Monti gli esempi dell'Alamanni, che usò le fronde dell'aglio, del porro, del cavolo, dell'appio, della jerofila, della rapa, della zucca, e della lattuga: aggiunge quelli dal Rucellai, che chiamò fronde quelle del croco, e gli arbusti dei prati; ed uno in fine riportane del Boccaccio, che fronde disse a quelle del porro. E crede il valente Oppositore d'esser così francheggiato da tali Ortolani, che riuscirà duro a'suoi Critici di tener fermo il loro decreto. Comincerò da ricordare che, avendomi Egli voluto interrogare con soverchia bontà, risposi ingenuamente, ed esposi quello, che pareami vero. Posso essermi ingannato nelle mie opinioni; ma non le sostenni arrogantemente, nè pronunziai decreti . In secondo luogo, lascerò ai grammatici l'incarico di far quelle sottili distinzioni, che offrono da ogni parte i varj luoghi dei citati Scrittori: farò quindi osservare che il porro, e gli arbusti, e il croco, e la zucca, e la rapa, e la jerofila, e l'appio, e il cavolo, e l'aglio, (1) E il Tasso nell' Apologia: « I Fiorentini sono maestri della lingua, e non solamente le nobili donne, ma quelle nate nel • contado potrebbono riconoscere i forastieri alla favella, come fu già conosciuto Teofrasto in Atene. Pag. 235 T. II. ed. di Ven |