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Mosse da prima quelle cose belle,
Sì ch' a bene sperar m' era cagione
Di quella fera la gaietta pelle,
L'ora del tempo, e la dolce stagione:
Ma non sì, che paura non mi desse
La vista che m' apparve d' un leone.
Questi parea che contra me venesse

Con la test' alta, e con rabbiosa fame,
Sì che parea che l'aer ne temesse :
Ed una lupa che di tutte brame

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Sembiava carca, con la sua magrezza,
E molte genti fe' già viver grame.
Questa mi porse tanto di gravezza
Con la paura, ch' uscia di sua vista,
Ch' i' perde' la speranza dell' altezza,
E quale è quei, che volentieri acquista,
E giugne 'l tempo, che perder lo face,
Che 'n tutti i suo' pensier piange, e s'attrista;
Tal mi fece la bestia senza pace,

Che venendomi 'ncontro, a poco a poco
Mi ripingeva là dove 'l Sol tace.
Mentre ch' i' rovinava in basso loco,
Dinanzi agli occhi mi si fu offerto
Chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando i' vidi costui nel gran diserto,
Miserere di me, gridai a lui,

Qual che tu sii, od ombra, od uomo certo.
Risposemi: non uomo; uomo già fui,
E li parenti miei furon Lombardi,
E Mantovani per patria amendui.
Nacqui sub Julio, ancorchè fosse tardi,
E vissi a Roma sotto 'l buono Agusto,
Al tempo degli Dei falsi e bugiardi.

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Poeta fui, e cantai di quel giusto
Figliuol d'Anchise, che venne da Troia,
Poichè 'l superbo llion fu combusto.
Ma tu, perchè ritorni a tanta noia?
Perchè non sali il dilettoso monte,

Ch' è principio e cagion di tutta gioia?
O se' tu quel Virgilio, e quella fonte,
Che spande di parlar sì largo fiume?
Risposi lui con vergognosa fronte.
O degli altri poeti onore e lume,
Vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore,
Che m' han fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio maestro, e 'l mio autore:
Tu se' solo colui, da cu' io tolsi

Lo bello stile, che m' ha fatto onore.
Vedi la bestia, per cu' io mi volsi :
Aiutami da lei, famoso saggio,
Ch' ella mi fa tremar le vene e i polsi.
A te convien tenere altro viaggio,
Rispose, poichè lagrimar mi vide,
Se vuoi campar d' esto luogo selvaggio:
Che questa bestia, per la qual tu gride,
Non lascia altrui passar per la sua via,
Ma tanto lo 'mpedisce, che l' uccide:
Ed ha natura sì malvagia e ria,

Che mai non empie la bramosa voglia,
E dopo 'l pasto ha più fame che pria.
Molti son gli animali a cui s'ammoglia,
E più saranno ancora, infin che 'l veltro
Verrà, che la farà morir di doglia.
Questi non ciberà terra, nè peltro,
Ma sapienza, e amore, e virtute,
E sua nazion sarà tra Feltro e Feltro:

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Di quell' umile Italia fia salute,
Per cui morìo la vergine Cammilla,
Eurialo, e Turno, e Niso di ferute:
Questi la caccerà per ogni villa,

Fin che l'avrà rimessa nello 'nferno,
Là onde 'nvidia prima dipartilla.
Ond' io per lo tuo me' penso e discerno,
Che tu mi segui, ed io sarò tua guida,
E trarrotti di qui per luogo eterno,
Ov' udirai le disperate strida,

Vedrai gli antichi spiriti dolenti,
Che la seconda morte ciascun grida:
E poi vedrai color, che son contenti
Nel fuoco, perchè speran di venire,
Quando che sia, alle beate genti:
Alle qua' poi se tu vorrai salire,

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Anima fia, a ciò di me più degna: Con lei ti lascerò nel mio partire; Che quello 'mperador, che lassù regna, Perch' i' fu' ribellante alla sua legge, Non vuol, che 'n sua città per me si vegna. In tutte parti impera, e quivi regge: Quivi è la sua cittade, e l' alto seggio: O felice colui, cu' ivi elegge!

Ed io a lui: Poeta, i' ti richieggio

Per quello Iddio, che tu non conoscesti,
Acciocch' i' fugga questo male e peggio,

Che tu mi meni là dov' or dicesti,

Sì ch' i' vegga la porta di San Pietro, E color, che tu fai cotanto mesti. Allor si mosse, ed io gli tenni dietro.

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Giungono i Poeti alla porta dell' Inferno: esaminano le pene degli Oziosi, e poscia passano al fiume Acheronte, (CANTO III.)

PER me si va nella città dolente:
Per me si va nell' eterno dolore:
Per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse 'l mio alto Fattore:
Fecemi la Divina Potestate,

La somma Sapienzia, e 'l primo Amore.
Dinanzi a me non fur cose create,
Se non eterne, ed io eterno duro:
Lasciate ogni speranza, voi che 'ntrate.
Queste parole di colore oscuro

Vid' io scritte all sommo d' una porta:

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Perch' io: Maestro, il senso lor m' è duro.
Ed egli a me, come persona accorta :
Qui si convien lasciare ogni sospetto:
Ogni viltà convien, che qui sia morta.
Noi sem venuti al luogo, ov' i' t'ho detto,
Che tu vedrai le genti dolorose,

Ch' hanno perduto 'l ben dello 'ntelletto.
E poichè la sua mano alla mia pose,
Con lieto volto, ond' i' mi confortai,
Mi mise dentro alle segrete cose.
Quivi sospiri, pianti, e alti guai
Risonavan per l'aer senza stelle,
Perch' io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,

Parole di dolore, accenti d'ira,

Voci alte e fioche, e suon di man con elle

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Facevano un tumulto, il qual s' aggira
Sempre 'n quell' aria senza tempo tinta,
Come la rena, quando 'l turbo spira.
Ed io, ch' avea d' error la testa cinta,

Dissi: Maestro, che è quel ch'i'odo?
E che gent' è, che par nel duol sì vinta?
Ed egli a me: Questo misero modo

Tengon l' anime triste di coloro,

Che visser sanza infamia, e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
Degli angeli che non furon ribelli,
Nè fur fedeli a Dio, ma per se foro.
Cacciarli i ciel, per non esser men belli,
Nè lo profondo Inferno gli riceve,
Ch' alcuna gloria i rei avrebber d'elli.
Ed io: Maestro, che è tanto greve

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A lor, che lamentar gli fa si forte? Rispose: Dicerolti molto breve. Questi non hanno speranza di morte: E la lor cieca vita è tanto bassa, Che 'nvidiosi son d'ogni altra sorte. Fama di loro il Mondo esser non lassa: Misericordia e Giustizia gli sdegna. Non ragioniam di lor, ma guarda, e passa. Ed io, che riguardai, vidi una insegna, Che girando correva tanto ratta, Che d'ogni posa mi pareva indegna:

E dietro le venìa sì lunga tratta

Di gente, ch' i' non avrei mai creduto, Che Morte tanta n' avesse disfatta. Poscia ch' io v' ebbi alcun riconosciuto, Guardai, e vidi l'ombra di colui,

Che fece per viltate il gran rifiuto.

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