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E fa fuggir le fiere, e gli pastoriadi

La quinta di queste pregevoli comparazioni è nel canto XV., ove finge Dante che Virgilio ed esso incontrino un mucchio di dannati; qualici guardavano, lei dice, come suol'da serafl 5,

Guardar l'un l'altro sotto nuova Luna y
E sb ver noi agazzavan le ciglia,
Come vecchio sartor fa nella cruna.

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14

La sesta presentasi nel canto XVII., allorchè dopo aver espressa l'angoscia di quei dannati e l'ansietà con cui dalla lor pelle scuotevano la pioggia di fuoco che su di essi cadeva, soggiunge egli:

Non altrimenti fan di state i cani

J

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Or col ceffo, or col piè, quando son morsi O da pulci, o da mosche, o da tafani. La settima da principio al canto XXIII, e descrive in essa il Poeta in qual modo egli colla sua guida cam

minava

Taciti soli, e senza compagnia

N' andavam l'un dinanzi, e l'altro dopo,

Come i frati minor vanno per via.

L'ottava rinviensi nel canto stesso, allorchè vedendo venire i diavoli Malebranche per volerlo aggraffare in compagnia di Virgilio, narra che questi preselo,

Come la madre, ch' al romore e desta,

E vede presso a se le fiamme accese

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Che prende il figlio, e fugge, e non s'arresta

Avendo più di lui che di se cura,

Tanto che solo una camicia vesta”,

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La nona, las decima, e l' undecima racchiudele il can to XXV., quando l'Alighieri descrive come un di quei dannati convertito in serpente si attacco ad un altro, ed assiem con quello trasformossi in istranissima guisa

Ellera abbarbicata mai non fue

Ad

Ad alber si, come l'orribil fiera
Per l'altrui membra avviticchiò le sue
Poi s'appiccar come di calda cera,

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Fossero stati, e mischiar lor colore;

Nè l' un, nè l'altro già parea quel ch' era;
Come procede innanzi dall' ardore,

Per lo papiro (14) suso un color bruno;

Che non è nero ancora, el bianco muore.

La duodecima sta nel canto XXVII., ove narra il Poëta che l'anima di un di quei dannati, in una fiamma nasco sta, rese un confuso suono,

Comel bue Cicilian, che mugghiò prima
Col pianto di colui, ( e ciò fu dritto )
Che l'avea temperato con sua lima
Mugghiava con la voce dell' afflitto,;

Sicchè con tutto che fosse di rame,
Pure el pareva dal dolor trafitto.

E finalmente l'ultima ingegnosa similitudine della pro ma cantica pomposamente si mostra nel canto XXXI, mentre descrivendo con fortissimi tratti la mossa del gigante Fialte, dice l'Alighieri:

1

Non fu tremuoto già tanto rubesto,

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(14) Alcani commentatori di Dante, tra i quali il Landino, il Vel lutello, e il Padre Lombardi pretendono che questo papiro mentovato dal Poeta foffe un' erba secca di cui facevansi al suo tempo i lucignoli delle candele ; e in conferma di questa loro opinioné si appoggian'essi a'l' autorità di Pier Crescenzio quasi contemporaneo dell Alighieri 1 Patre Venturi però crede che per papiro non abbia voluto il Poeta significare se non la semplice cafta, la quale presso i Greci, i Latini, gli Spagnoli, ed i Francesi conserva presso a poco il nome medesimo originato dal papyrus, arboscello che trovasi ne' luoghi paludosi dell'Egitto, e di cui facevasi altre volte la carta, come si fa oggigiorno di cenci di lino. Lascio all' accorto lettore la scelta di queste opinioni, e modestamente io dirò con Virgilio Now nostrum inter vos tantas componereilitess

Che scuotesse una torre cosi forte;
Come Fialte a scuotersi fu presto.

La prima pregevol comparazione della cantica del Purgatorio trovasi poi nel canto I. di essa ed è preceduta da quella terzina armoniosa:

L'Alba vinceva l'ora mattutina '

>

Che fuggia 'nnanzi, sicchè di lontano
Conobbi il tremolar della marina.
Nois andavam per lo solingo piano,

Com' uom che torna alla smarrita strada;
Che 'nfin ad essa gli par ire invano.

La seconda ce l'offre il canto III. della cantica stessa, quando narra Dante che alcune anime, le quali aspettavano di poter salire l' espiatorio monte domandate da Vir

gilio di certe cose, incontro a lui si mossero,

Come le pecorelle escon del chiuso

Ad una, a due, a tre, e l'altre stanno
Timidette atterrando l'occhio, el muso,
E ciò che fa la prima, e l'altre fanno,
Addossandosi a lei, s'ella s'arresta

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Semplici e quete, e lo 'mperchè non sanno s

La terza leggesi nel canto IX., allorchè dopo aver espo sto il Poeta di aver inteso un inno di lodi che le animé purganti indirizzavano all' Altissimo, ingegnosamente sbggiunge:

1

Tale immagine appunto mi rendea

Ciò ch' io udiva, qual prender si suole,
Quando a cantar con organi si stea,

Che or sì, or nò s'intendon le parole

La quarta, che è delle più vaghe dell' Italiana poesia, rifulge in quell' armoniosa terzina del XII. canto, relatíva all' apparizione dell' Angelo:

A noi venia la creatura bella,
Bianco vestita, e nella faccia quale

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Par tremolando mattutina stella.

La quinta, di diverso genere, ma egualmente pregevole, leggesi in quel luogo del canto XX. ove l'Alighieri dice: Quand io sent, come cosa che cada,

Tremar lo monte; onde mi prese un gielo,

Qual prender, suo colui, ch' a morte vada.

La sesta, più ridente e più vaga, grandeggia nel canto XXIV., allorquando egli descrive la cancellazione di un di quei sette P. allegorici, che l' Angelo impressi aveagli in sulla fronte:

E quale, annunziatrice degli albori,

L'aura di maggio muovesi, ed olezza
Tutta impregnata dall' erba, e da' fiori,
Tal mi senti un vento dar per mezza

La fronte, e ben senti muover la piuma,
Che fe sentir d'ambrosia l'orezza.

La settima contiensi nel canto XXVI., allorchè dopo aver esposto che alcune ombre da lui trovate facevansi molta festa tra esse e baciavansi insieme, soggiunge il

Pocta nostro :

2.

Così per entro loro schiera bruna

S'ammusa l' una coll'altra formica
Forse a spiar lor via, e lor fortuna.

L'ottava incontrasi nel canto stesso, ove dopo aver espres sa la meraviglia di quell'ombre în veder che, non essendo ei per anche morto, penetrato era nel purgatorio, in egual modo ei soggiunge:

Non altrimenti stupido si turba

Lo montanaro, e rimirando ammuta,

Quando rozzo, e selvatico s'inurba.

Ed in fine l'ultima rimarchevol similitudine della seconda cantica presentasi nel canto XXIX., quando narra Dante di aver veduti alcuni mistici candelabri, ai quali Di sopra fiammeggiava il bello arnese,

Più chiaro assai, che Luna per sereno

e belle

Di mezza notte, nel suo mezzo mese Nè la cantica del Paradiso offre men curiose comparazioni. La prima di esse è nel canto terzo di quel la cantica, ove il Poeta espone di aver vedute molte facce in atto di parlargli, che a lui apparivano,

Quali per vetri trasparenti e tersi,

O ver per acque nitide e tranquille,
Non si profonde, che i fondi sien persi,
Tornan: de nostri visi le postille,

Deboli sì, che perla in bianca fronte

Non vien men tosto alle nostre pupille:

La seconda risplende nel canto VIII. della cantica stessa, quando appena entrato l'Alighieri nel pianeta di Vene re dice con sublime concetto:

I' non mi accorsi del salire in ella;

Ma desserv'entro mi fece assai fede
La donna mia, ch'io vidi far più bella:

e quindi ingegnosamente ei soggiunge :
E come in fiamma favilla si vede,
E come in voce voce si discerne,
Quando una è ferma, è l' altra va, è riede,
Vid' io in essa luce altre lucerne

Muoversi in giro, più e men correnti ;
Al modo, credo, di lor viste eterne.

La terza pregevol comparazione dell' ultima cantica trovasi nel luogo del canto IX., in cui finge Dante che Fölco Vescovo di Marsilia, prima di manifestargli che racchiuso stavasi in uno di quei splendori lo spirito della Israelita Raab, a lui domandi:

Tu vuoi saper chi è 'n' questa lumiera j
Che qui appresso me così scintilla
Come raggio di Sole in acqua mera
I 2.

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