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Quanto,

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Uanto magistralmente la compassione destar sappia questo gran Poeta, ed esprimer sentimenti teneri ed affettuosi vediamlo da prima nei due più belli squarci dei rinomati canti V. e XXXIII. dell'Inferno, conosciuti sotto i nomi di Francesca d' Arimino, e del Conte Ugolino; squarci che veri modelli posson dirsi di sublime e lacerante patetico.

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Nel primo finge Dante d incontrar tra dannati per carnali colpe due: spiriti che affettuosamente andavano insieme, e che spinto egli dal desio di conoscer chi essi fossero a Virgilio dica

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Poeta, volentieri

Parlerei a que? duo, che insieme vanno;
E pajon si al vento esser leggieri.
Ed egli a me vedrai quando saranno
Più presso a noi; e tu allor gli priega
Per quell' amor ch'ei mena, e quei verranno
Si tosto come 'l vento. a noi gli piega,
Muovo la voce: o anime affannate,
Venite a noi parlar, s. altri nol niega.
Quali colombe dal disio chiamate,.

Con l'ali aperte e ferme, al dolce nido
Volan per l'aer: dal voler portate;
Cotali uscir della schiera, ove Dido
Venendo a noi per l'aer maligno
Si forte fu l'affettuoso grido.

O animal grazioso e benigno,

Che visitando vai per l' aer perso

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312

Noi, che tignemmo 'l mondo dia sanguigno,

E

Se:

Se fosse amico il Re dell'Universo;
Noi pregheremmo lui per la tua pace,
Po' ch'hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel ch'udire, e che parlar vi piace
Noi udiremo, e parleremo a vui,
Mentre ch'il vento, come fa, si tace.
Siede la terra, dove nata fui,

Su la marina, dove 'l Po, discende
Per aver pace co' seguaci sui (1)..
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
Prese costui della bella persona

Che mi fu tolta, e 'l modo ancor m'offende;
Amor, ch'a nullo amato amar perdona

Mi prese del costui piacer si forte,

Che, come, yedi, ancor non, m' abbandona;
ecome,
Amor condusse noi ad una morte:

2

Caina attende chi'n vita ci spense.
Queste parole da lor ci fur porte.
Da ch'io intesi quell' anime offense,
Chinai I viso, e tanto 'l tenni basso, il
Fin chel Poeta mi disse: che pense ?

Quan

(1) Francesca figlia del Conte Guido da Polenta Signor di Ravenna, uno de' più illustri protettori di Dante, fu maritata a Lancillot. to Malatesta Signore di Rimini, uomo di animo feroce, e di deforme aspetto. Questa donna di un cuore troppo tenero e sensibile innamorossi infelicemente del suo cognato Paolo Malatesta, giovine di vaghe forme, e di gentili maniere il quale divenne anche perduto amante di lei. Ma sendo stati sorpresi un giorno da Lancillotto, furono dallo stesso spietatamente uccisi. Quindi finge il Poeta che la Caina, cioè quel luogo dell' inferno, ov' egli fa, punire i fratricidi, stasse aspettando quel barbaro uccisore, il quale doveva esser tuttavia in vita, allorchè il Poeta scrisse questo canto. Par che la lettura del Romanzo di Lancillotto e Ginevra, che si crede l'opera di un tal Galeotto, producesse In quella interessante Coppia lo scoprimento del suo sfortunato reciproco amore.

Quando risposi, cominciai: o lasso;
Quanti dolci pensier, quanto disio
Menò costoro al doloroso passo !
Poi mi rivolsi a lorò, e parla' io,
E cominciai: Francesca, i tuoi martiri
A lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri
A che, e come concedette Amore,
Che conosceste i dubbiosi desiri?
Ed ella a me: nessun maggior dolore
Che ricordarsi del tempo felice

Nella miseria, e ciò sa'l tuo Dottore;
Ma se a conoscer la prima radice

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Del nostro amor tu hai cotanto affetto
Farò come colui che piange, e dice.
Noi leggevamo un giorno, per diletto,
Di Lancillotto, come Amor lo strinse
Soli eravamo, e senza alcun sospetto:
Per più fiate gli occhi ci sospinse

Quella lettura, e scoloroccil viso;
Ma solo un punto fu quel che ci vinse,
Quando leggemmo il disiato riso

Esser baciato da cotanto amante
Questi, che mai da me non fia diviso;
La bocca mi baciò tutto tremante.

Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse
Quel giorno più non vi leggemmo avante;
Mentre che l'uno spirto questo disse,
L'altro piangeva sì, che di pietade

I' venni men così com' io morisse

E caddi come corpo morto cade.

Per legger senza commozione

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e senza lagrime questo egregio squarcio bisogna aver certamente il cuore di ghiaccio, Con che verità di colori dipinto vien quel contra

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C

sto tra l'amore e il dovere, e il trionfo del primo! quanto è vaga la similitudine, quali colombe dal disto chiamate! che delicata espressione è quella di distato riso! quanto interessa quel palpito, palpito, e quel tremor dell' Amante di Francesca anche in mezzo al suo ardire! e come è patetico in fine e lugubre il quadro che termina questo egregio canto Immortale Alighieri, tu non sei solo il poeta del sublime, e del terribile; sei anche quello della Natura, e dell' amore!

Osserviam poscia nel canto di Ugolino (2) con quai tratti commoventi e spaventosi nel tempo stesso descriva il nostro gran Poeta la situazione orrenda di un misero padre condannato a morir di fame, in compagnia di quattro suoi figli, dalla studiata ferocia di una barbara popolazione. Un sogno funesto già annunziato aveva a questo padre dolente un cost grave infortunio; il quat `sogno dopo aver ei stesso all' Alighieri narrato, in cotal commovente guisa soggiunge:

Quand' i fui desto innanzi la dimane,
Pianger senti fra 'l sonno i miei figliuoli,
Cheran con meco, e dimandar del pane
Ben sei crudel, se tu già non ti duoli,

Pen

(2) Il Conte Ugolino della Gherardesca era Signore di Pisa, allor quando la gelosia, e l'invidia di Ruggieri Arcivescovo di quella Città immaginò di denunziarlo al Popolo come reo, di voler vendere ai Fiorentini, ed ai Lucchesi le fortezze dello Stato; fosse ciò vero, o supposto dall' invida malignità di quel Prelato quantunque l'aver Dante messo Ugolino nel luogo, ov' egli finge di trovar puniti i traditori, debba portarci a credere, che l' accusas avesse un qualche fondamento. Il fatto sta, che il popolaccio corse infuriato alla Casa del Conte, lo imprigionò assieme con quattro suoi figli, o con due figli, e due nipoti, come altri vogliono, e li lasciò tutti miseramente perir di fame, a vergogna eterna di Pisa, e a documento eterno degli orrori ai quali un popolo ignorante e superstizioso può darsi in preda ...

Pensando ciò ch' al mio cuor s'annunziavas
no E se non piangi, di che pianger suoli?
Già eram desti, e l'ora s' appressava
Che 'l cibo ne soleva essere addotto,
E per suo sogno ciascun dubitava.
Ed io senti chiavar l'uscio di sotto
All orribile torre: ond' io guardai
Nel viso a' mie' figliuol senza far motto
Io non piangeva, si dentro impietrai:
Piangevan elli; ed Anselmuccio mio
Disse tu guardi sì, padre, che hai?
Però non lagrimai, nè rispos'io

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Tutto quel giorno, nè la notte appresso,
Infin che l'altro sol nel mondo uscio.
Come un poco di raggio si fu 'messo

Nel doloroso carcere, ed io scorsi
Per quattro visi il mio aspetto stesso,
Ambo le mani per dolor mi morsi,

E quei pensando, ch'io 'l fessi per voglia
Di manicar, di subito levorsi,

*

E disser: padre, assai ci fia men doglia
Se tu mangi di noi; tu ne vestisti
Queste misere carni, e tu le spoglia
Quetami allor, per non fargli più tristi
Quel dì, e altro stemmo tutti muti.
Ahi dura terra, perchè non t' apristi?
Posciachè fummo al quarto di venuti,
Gaddo mi si gettò disteso a piedi,
Dicendo: padre mio, che non m' ajuti ?
Quivi morì, e come tu mi vedi,

Vid' io cascar litre ad uno ad uno,"
Tra l quinto di e'l sesto; ond' io mi diedi
Già cieco a brancolar sopra ciascuno,"
E due dì gli chiamai, poichè fur morti;

D 2

Po

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