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di delinquenti. Ci sfilano davanti Penteo, Fedra, Medea, Edipo, Ercole, Aiace e finalmente Oreste la cui natura criminale, quale diversamente fu intesa e rappresentata dai tre grandi tragici, è assai bene posta in luce dal Levi. Con Eschilo, il figlio di Agamennone è vendicatore dei mani paterni inviato dalla divinità; con Sofocle, egli diviene un delinquente per passione; con Euripide, ci troviamo in presenza di un vero e proprio epilettico.

Dopo avere, quasi senza risultato, studiati gli storici, l'A. passa ad esaminare gli oratori. Conclusione delle sue ricerche che, a fianco della vecchia criminalità violenta, va costituendosi una criminalità nuova fatta di frode, di risentimento politico, di sprezzo verso la vecchia e già vacillante religione.

In Ippocrate, che il Levi studiò con solerte attenzione, si riscontrano i germi d'una scienza nuova ed il concetto di criminalità si va sempre più determinando: il medico antico accenna a fatti che già i tragici intuirono e dà loro un aspetto assai più positivo. Non minori progressi nel campo della scienza ha fatto in questo tempo la filosofia; a fianco di Ippocrate sta pure Platone, il quale concepisce la criminalità come il male sommo della ingiustizia e si spinge pure a ricercare le cause della delinquenza. Aristotele invece combattè con sillogismi gli asserti geniali di Platone.

Nel secondo capitolo l'A. svolge un argomento interessante e pure esso geniale dopo la sfilata dei varii delinquenti del mondo ellenico, egli si pone a studiare la concezione del Fato presso i Greci ed i varii stadi che essa assunse nella sua evoluzione.

La concezione della fatalità è eminentemeute ellenica e risiede nel limitato sapere degli uomini, incapace di rendersi ragione di tutte le cose circostanti, e nel desiderio di arrivare a comprenderle. È insomma qualche cosa d'incerto che il Levi ardisce chiamare la deontologia che accompagna sempre la fenomenologia, e da questo indistinto le scienze tolsero fuori dapprima le leggi del mondo fisico e poi quelle del mondo morale. La fatalità è talora considerata superiore agli dèi, talora anche inferiore ciò si comprende chiaramente quando si consideri il carattere indeterminato che la accompagna, mentre invece l'aspetto antropomorfo 'attribuito alla divinità viene a disegnarla con tratti sicuri.

Qualora si consideri la filologia vedremo che diversi nomi indicano appunto il Fato e varii sono i loro significati. Incerte pure sono le personificazioni di questi varii appellativi del Fato.

Il concetto dunque della fatalità è ispirato ai Greci dal senso di armonia che presiede a tutti i loro pensieri, ad ogni loro azione: ciò in rapporto colla giustizia, perchè si riferisce appunto alla vendetta che tien dietro al delitto, alla ereditarietà delle tendenze criminose.

Codesta armonia si turba mediante l'Atŋ e l' "rẞpts; la prima di esse dipende direttamente dalla divinità: i Greci pertanto non potendo negare l'esistenza del male morale, anche questo includevano nel cerchio della Fatalità. La seconda invece è puramente umana. L'una e l'altra

si accordano insieme per spingere l'uomo al delitto, talora per iniziare una serie criminosa, talora invece a punizione d'un precedente misfatto. Solamente propiziando la divinità con cerimonie espiatorie si poteva ristabilire questa turbata armonia.

Di quali mezzi dispöne la giustizia divina per punire i colpevoli? La Nemesi e le Erinni oppone la divinità alla nequizia umana: la prima di esse è dalla iconografia rappresentata come una donna maestosa e serena, punitrice di ogni cosa che spiaccia agli dèi. Più veramente consona col concetto di penalità la rappresentazione delle Erinni: del loro nome è incerta la etimologia; sono esse le tutrici dei supremi interessi delle leggi morali e divengono vindici terribili di qualsiasi trasgressione. Stanno in istretta relazione colle Moire; queste mantengono l'ordine fisico e morale, quelle vendicano le violazioni dell' ordine stesso e sovratutto l'omicidio familiare. Quanta parte non hanno mai le Erinni nelle atroci vicende di Oreste e di Edipo! Strano il contrasto fra il mito di Apollo e quello delle Erinni; essendo il medesimo che si osserva fra la luce e le tenebre, contrasto che dispare co.la trasformazione delle Erinni in Eumenidi: tale passaggio risalta chiaramente nelle Eumenidi di Eschilo.

Studiati i mezzi di che dispone la giustizia divina, l'A. si accinge ad esaminare il modo onde essa viene a raggiungere i suoi intenti. La pena che gli dèi mandano non si effettua già sull'istante, ma colpisce di sovente tutta la schiatta dell' uomo colpevole, votandolo alla estrema perdizione: il più terribile castigo era di infondere nei discendenti il germe malvagio, le empie tendenze del progenitore.

Talora anche la responsabilità si estende ad una intera città per la colpa commessa da un uomo solo. Tale concetto appare oggi, ed apparve anche a qualche antico, irragionevole alquanto e ridicolo: il grande lirico tebano lo giudicò invece una espressione della grande legge dell' armonia.

Sempre a fine di mantenere tale equilibrio armonico conviene pure che la vendetta di sangue, che la eredità criminosa, abbiano un termine nella trista discendenza del delinquente. Colle preghiere, colle espiazioni si arriva ad ottenere il perdono divino. La fine dei delitti e dei mali deve, osserva l'A. di necessità essere religiosa, come religioso era tutto il complesso delle leggi informatrici del mondo morale di allora.

Interessante invero lo sguardo alla evoluzione del concetto di Fatalità, che l'A. pone a complemento del presente capitolo. Questa forza divina infatti, ne sono testimoni gli scrittori, si fa sempre più ordinata ed intelligente, si manifesta in una colle azioni umane. In pari tempo la classe più colta fra le genti ricopre del suo disprezzo gli indovini, i medici rifiutano l'aiuto della fortuna ed una grande confusione va, per opera dei filosofi, sovvertendo la serena armonia, che regnava sovrana nell' Olimpo ellenico.

Gli eruditi si vanno ognor più convincendo che la Fatalità corrisponde all' intima coscienza ed alla disposizione naturale dell'uomo e

non è più da ricercarsi nelle forze esterne. Si arriva pertanto ad Aristotele, il quale muove un passo di più verso il monoteismo, affermando essere l' Intelligenza principio necessario dell' universo.

Col terzo capitolo giunge l'A. al momento della sua opera, quando la filologia e la mitologia cedono il campo alle geniali indagini della filosofia del diritto il Levi si pone ad investigare le basi sociali ed etiche della pena nella Grecia antica.

Prima fra tutte si offre la pena dell'omicidio: essa allora si esercitava colla vendetta di sangue e privatamente, di famiglia in famiglia, di gruppo in gruppo. Esisteva pertanto la responsabilità collettiva, di cui è manifesto esempio la ereditarietà criminosa, dai tragici attribuita ad alcune famiglie. Sorgendo lo Stato, vanno via via diminuendo le vendette private e la responsabilità collettiva si trasforma in responsabilità individuale e la vendetta di sangue in semplice diritto di accusa. Quando cominciano i Greci a distinguere il delitto cui presiede l'intelligenza dal delitto involontario?

Noi sappiamo che ogni colpa essi riferivano alla Fatalità, ma sappiamo d'altra parte come questo concetto non fosse minimamente soverchiante e come quella forza si manifestasse sempre per mezzo delle azioni umane. C'era d'altra parte uno stretto rapporto fra la religione e la giustizia penale, fra la purificazione e la pena dato tale intimo legame, si comprende di leggeri come fossero penalmente imputabili anche gli empii.

Già dal tempo antico troviamo ricordata la distinzione fra l'omicidio volontario e l'involontario, ai quali corrisponde una diversa pena. Rispetto agli altri delitti, non tutti venivano contemplati dalla giustizia divina, perchè, mentre l'omicidio posava su concetti religiosi, le altre colpe venivano considerate differentemente a seconda dei varii interessi politici.

Il problema della libertà del volere si presenta tardi ai Greci : dapprima solo la religione tutelava i diritti; s' inizia tuttavia un salutare rinnovamento coi filosofi, che poi raggiunge il massimo volume coi sofisti si incomincia pertanto a dubitare degli dèi, si pongono in canzone gli indovini e Tucidide si eleva ad una nozione astratta del delitto. In tale momento sorge Socrate il quale proclama la identificazione della scienza colla virtù. Platone, a sua volta, ammette l'esistenza del delitto, ma crede che in colui che lo compie sia sempre assente l'intenzione di essere ingiusto il delinquente però è in ogni caso imputabile, per ragione morale, poichè, sebbene egli operi per ignoranza, è necessario che ne comprenda le gravi conseguenze.

Se non si voglia chiamare Aristotele il primo propugnatore del libero volere, conviene però riconoscere che egli ha mostrato essere la imputabilità e la responsabilità strettamente legate al libero arbitrio : a tale conclusione giunge il Levi dopo una accurata disamina delle opere dello Stagirita.

Il diritto di punire trae la sua origine dalla vendetta privata solo

più tardi, a giustificare la pena, occorre un concetto più elevato, onde viene circonfuso da una aureola religiosa. E già fu parlato dello stretto legame che univa la religione alla giustizia e delle sue vane conseguenze. La base del diritto di punire era allora la sicurezza dello Stato; vedemmo che per Platone invece il concetto che determina la pena è ben differente. Aristotele, a sua volta, nella Retorica, dà distinzioni anche più sottili intorno alla natura ed agli effetti del reato stesso.

Lo scopo della pena era in principio di. trarre vendetta dell' offensore: solo più tardi si propose il fine di allontanare dal male gli altri cittadini, mediante il triste esempio del punito. Con, Platone la pena non è più considerata un mero atto di intimidazione, ma bensì viene elevata d'un grado, e stimata un mezzo di miglioramento per il delinquente stesso.

Dalle ricerche di indole storica passa il Levi a considerazioni di indole filosofica, dall' analisi alla sintesi: rivolge lo sguardo al lungo cammino percorso e conchiude che nella storia del pensiero e della pratica penale dei Greci egli vede nettamente delinearsi tre periodi; il periodo della vendetta privata, il religioso ed il civile, il quale trae sopratutto la sua origine dalle speculazioni dei filosofi.

Nel quarto ed ultimo capitolo arriva il Levi alle conclusioni delle lunghe e minute sue indagini: egli studia via via, fino ai nostri giorni, la molto tormentata questione del libero volere e segue naturalmente l'opinione più moderna, la positiva.

Osserva l'A. che il germe delle teorie criminali del giorno d'oggi si trova già nelle geniali speculazioni platoniche, con la differenza però che, mentre il filosofo antico giunse alle sue conclusioni per mezzo di ardite speculazioni metafisiche, la scuola criminale le raggiunse invece con lunghi e pazienti studii positivi.

Così pure i rapporti fra delitto ed epilessia, indagati e classificati dal Lombroso e dalla sua Scuola, si riscontrano sotto una veste artistica nei personaggi della tragedia greca. Così pure il genio ellenico intui il problema della ereditiaretà delle tendenze criminose.

Rispetto alla pena giova soggiungere che i Greci antichi, vagamente o compiutamente preannunciarono ogni filosofica concezione sulla pena.

Ed in fine, a conferma delle proprie teorie scientifiche, trae il Levi un salutare insegnamento da un grande lirico greco: «esperienza è principio di sapere ».

Così chiude l'A. il libro, la cui lettura riesce utile studio per i cultori delle dottrine giuridiche ed altresì per gli studiosi delle discipline filologiche.

Venezia, 1 Giugno 1903.

ODDONE RAVENNA

A. Zocco-Rosa, La ricostruzione dello « Edictum perpetuum Hadriani ». Torino, tip. Fratelli Bocca, 1902, pgg. 19.

Loda l'opera di Ottone Level sulla ricostruzione dell'editto perpetuo e il metodo da lui tenuto rilevando certe aggiunte o rettificazioni che ricorrono qua e là nella nuova edizione francese; rileva gli spostamenti che hanno sofferto alcuni paragrafi dell'edizione alemanna nella edizione francese, e come in moltissimi punti la restituzione del testo, proposta dal Level possa tenere il campo nonostante le obbiezioni di alcuni critici. Loda pure il prof. Peltier che ha resö dell' editto perpetuo di Adriano un'accurata e pregevole versione, di cui affretta coi suoi voti il compimento.

Padova, Luglio 1903.

A. SERVI

ANTONINO ROMANO, Particula Pliniana. Palermo, 1901, pgg. 6.

Ricorda che le relazioni fra Plinio e Varrone sono in generale poco conosciute, anche dopo le dotte ricerche del Münzer. Contro questo crede inverosimile che Plinio abbia avuto dinanzi a sè Varrone, e che da questo egli medesimo sia risalito alla fonte originaria; perchè, se egli prendeva la notizia direttamente dall' erudito Reatino come avremmo potuto spiegarci l'« id mirum est, Graecis auctoribus proditum apud nos postea sileri? ». Crede l'A. che Plinio, secondo ogni probabilità, non abbia consultato nè Teofrasto nè Varrone, ma copiato servilmente un' altra fonte. In questa doveva stare quella espressione << apud nos postea sileri », tratta dal più antico scrittore che per primo aveva attinto la notizia da Teofrasto e dal quale dovette togliere quest'ultima anche Varrone, sopprimendo quell' espressione che non aveva più ragione di esistere, poichè uno scrittore latino se n'era occupato. Questa ipotesi resta meglio confermata e acquista anzi un certo grado di sicurezza, con la prova fornita dall'A. nelle Osservazioni pliniane, che nella polistoria, fonte comune a Plinio ed a Solino, Teofrasto doveva essere usufruito.

Padova, Luglio 1903.

A. SERVI

ANTONINO ROMANO, Note minime sulle fonti dei « Topica» di Cicerone. Palermo, 1901, pgg. 7.

L'A., mediante raffronti, dimostra che nei «Topica » Cicerone trae molti degli esempi giuridici dai libri XVIII iuris civilis di Q. Muzio Scevola; ciò è anzitutto provato dal fatto che egli in diversi luoghi fa espressamente menzione di tale giureconsulto; così nei 8 29, 37, 38,

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