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LETTERA QUINTA.

Disse pur bene Orazio qualora chiamò i poeti una razza biliosa. Siccome essi credono di chiudere in petto un non so quale spirito divino, che li distingua dalla schiatla del restante degli uomini, così li vedrete per lo più stizzosi, intolleranti, bisbetici, e per poco che gli stuzzichiate pronti a dar mano alla sferza. Esio do, il poeta più antico che noi conosciamo, è eziandio il primo satirico. Quando gli viene in concio, egli dice tutto il male che può della sua patria e de' suoi contemporanei. Io vivo per mia disgrazia nell' età del ferro, esclama egli in un luogo; oh avesse piaciuto al Cielo che io fossi o morto prima, o nato dopo! ed altrove chiama il suo paese cattivo all'inverno, fastidioso alla state, e non mai buona cosa. Dante, come in parecchie circostanze della sua vita, così in questo spirito di maldicenza rassomiglia molto ad Esiodo. Egli tratta i suoi concittadini nella stessa maniera, quando mette queste parole in bocca al suo maestro Brunetto La

tini, da lui trovato nel terzo cerchio, che consigliandolo a seguitare il glorioso cammino per cui s'era messo, soggiunge poi: Ma quell'ingrato popolo maligno, Che discese da Fiesole ab antico,

E tiene ancor del monte e del macigno, Ti si farà per tuo ben far nimico: Ed è ragion: che tra gli lazzi sorbi Si disconvien fruttare al dolce fico.

Inf. XV. 61.,

Se questi due poeti lasciarono il freno alla satira contro la loro patria, non hanno forse tutto il torto. Ambidue soffrirono de' cattivi ed ingiusti trattamenti da' loro cittadini. Esiodo fu sbandito da Ascra, Dante da Firenze, e furono costretti di errar vagabondi per tutta la loro vita. La causa dell'esilio di Dante fn l'avere voluto mettere la concordia fra i tanti partiti Guelfi, Ghibellini, Bianchi e Neri che desolavano l'Italia. Impresa vana e perigliosa. Un uomo di sana ragione è sempre mal accolto in mezzo a una turba di fanatici.

Ma dove Dante trova ampia materia onde

sfogare la sua bile contro i Fiorentini, è nell'ottavo cerchio, in cui stanno i fraudolenti, fra i quali riconosce molti suoi compatrioti. La Fraude è da lui personificata sotto la figura di Gerione antico Re di Spagna, uomo di pessima natura, ed è rappresentata assai bizarramente in questa maniera.

Ecco la fiera con la coda aguzza,

Che passa i monti, e rompe muri ed armi: Ecco colei che tutto il mondo appuzza... La faccia sua era faccia d'uom giusto;

Tanto benigna avea di fuor la pelle, E d'un serpente tutto l'altro fusto. Due branche avea pilose insin l'ascelle: Lo dosso, 'l petto ed amendue le coste Dipinte avea di nodi e di rotelle. Con più color sommesse e soprapposte, Non fer ma' in drappo Tartari, nè Turchi, Nè fur tai tele per Aragne imposte.

Inf. XVII. 1.

Questa fiera mezz'uomo, e mezzo serpente, che come dissi, è Gerione, con la metà del suo corpo stava appoggiata sull'orlo della sponda che divide il settimo dall'ottavo cer

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chio, come i burchj tirati a riva, che parte sono in acqua e parte in terra:

Nel vano tutta sua coda guizzava,
Torcendo in su la venenosa forca,

Che a guisa di scorpion la punta armava. Dante volendo dare corpo alla Frode scelse il soggetto di Gerione, essendo che egli non è solito di personificare gli Enti morali sotto il proprio lor nome, come per lo più costumano di fare i poeti. Non si trova ch'egli abbia mai attribuito forma corporea all'Invidia, all'Ira, all' Avarizia, e ad altre simili proprietà astratte, che hanno gran parte nel suo poema; benchè questo potesse dar luogo a molte belle invenzioni. Ma a' tempi di Dante non prevaleva molto il genio per sì fatto genere di allegorie, com'era a' tempi degli antichi poeti. Essi secondo il loro sistema di religione rappresentavano sotto aspetto sensibile e materiale i vizj, le virtù, e quasi tutte le affezioni dell'anima, e ne facean tante Divinità. Ma col cangiare delle costumanze e della religione cangiò pure la maniera di pensare. A'tempi di Dante non sussisteva più questo linguaggio figurato, che

non si tornò ad adottare nella poesia, se non quando si volle prendere per modello gli antichi poeti, e camminare sulle loro tracce.

Arrivato Dante alla proda del settimo cerchio si trovò in una pianura, dove pioveano fiamme, e colà erano tormentati gli usuraj.

Per gli occhi fuori scoppiava lor duolo:
Di qua, di là soccorrien con le mani,
Quando a'vapori, e quando al caldo suolo.
Non altrimenti fan di state i cani

Or col ceffo, or col piè quando son morsi
O da pulci, o da mosche, o da tafani.

Inf. XVII. 46.

La stessa comparazione è usata anche dall'Ariosto, ove descrive il combattimento di Ruggiero con l'Orca, e benchè sia pregevole per la evidenza, pure da alcuni critici fu tacciata di bassa e di triviale. Ma parlando di Dante non sarebbe prezzo dell' opera l'affaticarsi di mostrare questo difetto ne' suoi versi poichè egli non si picca di essere molto delicato. E che direste, Miledi, al vedere come rappresenta un certo usurajo Padovano, che

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