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Tu hai l'arsura, e il capo che ti duole;

E

per leccar lo specchio di Narcisso, Non vorresti a invitar molte parole. Ad ascoltarli er'io del tutto fisso,

Quando 'l Maestro mi disse: or pur mira,

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s'io ho sete, ec. Rende ragione d'aver detto a Sinone che parla al solito malamente; e adoprando la particella chè al senso di perciocchè [a], vuole dire: se io ho il gastigo della sete e delTacqua marcia, che il ventre mi rinfarcia, mi riempie ed ingrossa (dal latino infarcire), tu pure ec. L'edizioni diverse dalTa Nidobeatina leggono:

La bocca tua per dir mal, come suole:

Chè s'i'ho sete, e umor mi rinfarcia.

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»Il Venturi fu d'avviso che la botta del monetiere finisca con questo verso, e che il seguente terzetto sia poi la risposta del Greco. Di questo parere si mostra anche il Torelli, il quale dice cheil monetiere, contrapponendosi al Greco, mostra il suo stato essere migliore di quello dell'altro, dicendo che se egli ha sete si riempie di umore ad estinguerla; ma questo non può il Greco, a cui manca l'umore, come ad etico. Non è d'uopo di estendersi punto per mostrare l'erroneità di questa opinione, chè ognuno può di leggieri accorgersene da sè. Α cavarne pur qualche senso il Torelli avverte che la e di questo verso non è congiunzione, ma avverbio, e vale parimenti, alla latina et per etiam. Virgilio: Quorum Iphitus aevo-Iam gravior, Pelias et vulnere tardus Ulixi: [b].

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127 Tu hai l'arsura, quella per cui fumava come man bagnata il verno, v. 92., el capo che ti duole, per la sopraddetta febbre acuta, v. 99.

128 lo specchio di Narcisso; l'acqua, nella quale lo sciocco giovane specchiandosi, tanto di sè medesimo s'invaghi, che, dimenticaudo di mangiare e bere, se ne morì; onde leccar lo specchio di Narcisso vuol dire bere dell'acqua.

129 Non vorresti a invitar molte parole: non brameresti un lungo invito; alla prima parola d'invito correresti. 131 132 or pur mira, - Che per poco è ec.: espressione

[a] Vedi Cinouio, Partic. 44. a6. [b] Aeneid. lib. 11. v. 435. e seg.

Che per poco è che teco non mi risso.
Quand' io 'l senti' a me parlar con ira,
Volsimi verso lui con tal vergogna,
Ch'ancor per la memoria mi si gira.
E quale è quei che suo dannaggio sogna,
Che sognando disidera sognare,

Sì che quel ch'è, come non fosse, agogna:
Tal mi fec'io non potendo parlare;
Chè disiava scusarmi, e scusava

Me tuttavia, e non mi credea fare.

mauca,

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minacciosa, e come se detto avesse: ancor mo guarda, prosiegui pur a mirare, che se nol sai, per poco è, poco vi che teco non mi risso, che non faccia rissa con te, che non mi scappi la pazienza; →→o, come spiega il Biagioli, poco manca ch'io non ti riprendo, e sgrido aspramente. -Che è per poco che teco non più risso, ha il Vat. 3199.

133 Quand' io 'l senti', apocope, invece di sentii.

134 con tal vergogna, cioè con la fronte sì carica di quel rossore che fa l'uomo talvolta degno di perdono. BIA

GIOLI.

questo,

136 al 141 E quale è quei ec. Consiste la similitudine in questo, che come chi sogna suo dannaggio (lo stesso che suo danno, cosa a sè dannosa), erra, credendo di non sognare, e desidera di sognaré; così Dante in quel punto, mentre, nou potendo per la vergogna e confusione parlare, manifesta va nella miglior maniera il suo ravvedimento, errava, desiderando di potere il ravvedimento suo manifestar con parole. →→ È dice il Biagioli, uno di quei luoghi, ove si scorge che Dante ricava le più volte i suoi tesori da quelle minuzie, le quali, per la loro leggerezza, difficile è tanto di poter discernere. Ognuno può aver sognato di trovarsi in gran periglio, e desiderato in quel sogno di sognare, credendolo realità, e così desiderando che fosse quel ch'era di fatto. Con questa similitudine spiega Dante il suo stato attuale. Pieno di vergogna e di confusione desidera parlare e scusarsi, e non può parlare, perchè muto lo fa stare la vergogna; ma, contro il creder suo, quella confusione e vergogna è appunto ciò che lo scusa appo Virgilio. *

Maggior difetto men vergogna lava,

Disse 'l Maestro, che 'l tuo non è stato;

Però d'ogni tristizia ti disgrava:

E fa' ragion ch'io ti sia sempre allato,

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145

Se più avvien che fortuna t'accoglia Dove sien genti in simigliante piato; Chè voler ciò udire è bassa voglia .

142 al 144 Maggior ec. Costruzione: Men vergogna lava maggior difetto, che non è stato il tuo ; quasi dica: il tuo rossore è maggior del tuo fallo. - d'ogni tristizia ti disgrava, ti rasserena.

145 al 147 E fa ragion ec. Costruzione: E se più avvien, che fortuna t'accoglia (t'accosti) dove sien genti in simigliante piato (litigio, chiassata), faʼragion (fa'conto) ch'io ti sia sempre allato; ed è ciò come a dire: vergognati sempre d'ivi trattenerti.

148 Chè voler ec. Questo si è l'insegnamento, al quale ci ha menati per la via che gli è parsa migliore, perchè più naturale nella presente situazione; insegnamento utilissimo, e che però espone il Poeta in un verso tale che, chi pur una volta lo legge, non se lo sdimentica più, per ismemorato che egli sia. BIAGIOLI. ←

ARGOMENTO

Discendono i Poeti nel nono cerchio, distinto in quattro giri, dove si puniscono quattro specie di traditori; ma in questo canto Dante dimostra solamente che trovò d'intorno al cerchio alcuni giganti, traʼquali ebbe contezza di Nembrot, di Fialte e di Anteo, da cui furono ambi calati, e posti giù nel fondo di esso cerchio.

Una medesma lingua pria mi morse,

Sì che mi tinse l'una e l'altra guancia,
E poi la medicina mi riporse:

Così od' io che soleva la lancia

D'Achille e del suo padre esser cagione
Prima di trista, e poi di buona mancia.

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Una medesma lingua, di Virgilio.-pria mi morse, metaforicamente per rimproverò, verso 131. e seg. del pas

sato canto.

2 mi tinse ec., mi cagionò rossore.

3 la medicina mi riporse, v. 142. e segg. 4 al 6 odio, detto, intendi, dai poeti. e del suo padre, Pelco, da cui era cotal lancia passata nelle mani d'Achille. -trista e buona mancia vale qui letteralmente tristo e buon regalo, ed allegoricamente ferita e rimedio; onde Achille stesso, parlando di Telefo dalla sua lancia ferito prima, e poscia guarito: opusque (dice) meae bis sensit Telephus hastae[a]. Igino

[a] Ovid. Met. Xu, 112.

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Noi demmo 'l dosso al misero vallone,
Su per la ripa che 'l cinge d'intorno,
Attraversando senza alcun sermone.
Quivi era men che notte, e men che giorno,
Si che 'l viso n'andava innanzi poco:
Ma io senti' sonare un alto coruo
Tanto ch'avrebbe ogni tuon fatto fioco,

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scrive che Telefo guarì mediante l'applicazione d'un empiastro fatto colla ruggine di quella lancia: quam (hastam) cum rasissent remediatus est. Fab. 101. PORTIRELLI.◄◄

7 demmo 'l dosso, voltammo la schiena, ci partimmo. 8 9 Su per la ripa ec., camminando attraverso della ripa che cingeva quella bolgia, ed avviandoci verso l'infernal centro. 10 Qui era l'Ang. E. R. men che notte ec. Descrive quel crepuscolo della sera, quando anche in tutto non è spento il giorno, nè in tutto apparisce la notte. DANIELLO.

Il viso n'andava, la Nidob.; il viso m'andava, l'altre edizioni, e la 3. romana coi codd. Ang. e Vat. 3199; - e questa, dice il Biagioli, è la vera lezione, perchè è Dante che parla, e dee parlar solo del viso suo, cioè della sua vista.

12 13 senti', apocope, invece di sentii. un alto corno. per un alto corno vuole intendersi un corno posto in alto (perocchè sonato da Nembrotto, uno de'giganti che tanto sopra quella ripa, su della quale camminavano i Poeti, s'innalzavano, che Dante, come dirà, credetteli da prima torri); ed in tal caso il tanto che segue, varrà di per sè come tanto fortemente: o vuolsi col Daniello fare la costruzione: un corno tanto alto; e tanto alto varrà come tanto altamente, tanto fortemente. Di questo Nembrot, al cap. 10. del sacro Genesi, non abbiamo altra notizia, se non ch'ei fu figlio di Chus, nipote di Cham, e per conseguenza pronipote di Noè, e che col tempo divenne un bravo, robusto e famoso cacciatore; e sebbene, come discendente di Cham, vi sia tutto il fondamento di crederlo uno de' primi autori dell'Idolatria e della pazza intrapresa della Torre di Babel, narrata al cap. xi. del detto sacro Genesi, ciò per altro non è punto autorizzato dalla sacra Scrittura. POGGIALI. fatto fioco per fatto sembrar fioco, di poca voce, di poco strepito.

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