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I'fecil padre e 'l figlio in sè ribelli :
Achitofel non fe' più d'Absalone
E di David co' malvagi pungelli.
Perch'io partii così giuute persone,

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di Arrigo II. è chiamato assolutamente Giovanni, e in modo da non potersi dire che abbiano errato gli amanuensi. Ora se fu in inganno un Villani, cronista di professione e contemporaneo di Dante, qual meraviglia che anche il Poeta nostro, intendendo di parlare del primogenito, lo chiamasse col creduto nome di Giovanni?

136 in sè ribelli. Ribello propriamente dicesi il suddito che si solleva contro del principato. Come però di tale sollevazione è cagione lo scontento, metonimicamente dice Dante fatti il padre e il figlio in sè ribelli invece di dirli fatti un dell'altro scontenti. Non potendosi infatti chiamare Arrigo ribelle al suo figliuolo, forza è il supporre qui usata dal Poeta una tal voce in senso figurato. Gli antichi Espositori, da noi consultati, non v'hanno posta riflessione; ma tutti i moderni sono appunto del nostro avviso. Venturi spiega: « ribelli, cioè al loro proprio sangue, all'amore naturale di figliuolo e di padre.»e Biagioli: « ribelli, in riguardo all' effetto che segue la ribellione. »

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Ha taluno in proposito sottilmente pensato che Dante al verbo ribellare (da cui ribelle si deriva) abbia qui inteso di attribuire il significato di rinnovare o ripigliare la guerra, corrispondente al lat. iterum bellum gerere; e sebbene non abbiasi, per quanto sappiamo, esempio alcuno in appoggio di questa opinione, pure non si può negare ch'ella ingegnosa non sia. -- Noi, col Volpi e col Poggiali, opiniamo che ribelli sia qui detto per similitudine ed al senso di emoli, nemici, avversarj ec., trovandolo in tal significato anche nel Petrarca in quel verso: Rubella di mercè, che pur le 'nvoglia, in cui rubella vale quanto nemica, contraria ec.←

137 al 139 Achitofel fu colui che mise discordia tra Absalone e il re Davidde suo padre, come si ha nella Scrittura sacra. VOLPI.-non fe' più d'Absalone – E di David: »✦ Nè di David, il Vat. 3199. Dee qui la particella di valere quan to tra, o con, due delle varie particelle, alle quali la di alcuna fiata equivale: vedi il Cinonio (Partic. 8o. 3. 11.). -pungelli. Pangello propriamente significa pungolo; qui però adoperasi

Partito porto il mio cerebro, lasso!

Dal suo principio, ch'è 'n questo troncone. Cosi s'osserva in me lo contrappasso.

figuratamente per incitamento, istigazione.punzelli, legge il cod. Ang. E. R. e il Vat. 3199. giunte per congiunte. 140 cerebro, parte, per tutto il capo.- lasso! interiezione di dolore, come di sopra v. 107. Non poteva meglio proporzionar la pena col delitto. BIAGIOLI.

141 Dal suo principio, dal cuore, il quale si dice essere primum vivens, et ultimum moriens, essendo la sede e la fucina degli spiriti, che ivi lavorati si diffondono poi, e somministrano a tutte le altre membra vigore. VENTURI.-ch'è 'n questo troncone, in questo corpo decapitato. →→→ Ma a questa chiosa del Venturi i nostri lettori troveranno al certo preferibile la seguente, che noi dobbiamo alla gentilezza del signor Floriano Caldani, chiarissimo Professore di Anatomia in questa I. R. Università. « Prassagora (dic' egli) e Plistonico, al dire di Galeno, » furono di parere che il cervello considerare si debba quale » appendice della midolla spinale; e forse a questa opinione, » che fu pure quella di Aristotile, volle qui riferire il Poeta » nel dire che il cervello era diviso dal suo principio, cioè » dalla midolla spinale, ch'è nel tronco delle vertebre. »←

כן

142 lo contrappasso. Trovo nel Lexicon iuridicum, stampato in Ginevra nel 1615, sotto l'articolo Talio, che la legge del talione videtur Aristoteles (lib. de morib.) avTITETTOVJOS vocare. Significando cotal greco vocabolo letteralmante vôlto in latino contra passus, non rimane dubbio che per contrappasso non intenda qui Dante la legge stessa del talione; e che tale l'appelli per rapporto al latino equivalente al greco VTITETTOVĴOS. Intenderemo adunque che Cosis' osserva in me lo contrappasso vaglia il medesimo che in cotal modo s'adempie in me la legge del talione, che vuole simile il gastigo al commesso delitto: onde qui porto il capo diviso dal tronco, come in terra staccai il figlio dal padre.

ARGOMENTO

Giunto il Poeta nostro sopra il ponte che soprastava alla decima bolgia, sente diversi lamenti deʼtristi e falsarj alchimisti, che in quella erano puniti; ma per lo buio dell'aere non avendo potuto vedere alcuno, disceso di là dal ponte lo scoglio, vide che essi erano cruciati da infinite pestilenze e morbi. Tra questi introduce a parlare un certo Griffolino ed un certo Capocchio.

La molta gente e le diverse piaghe

Avean le luci mie sì inebriate,
Che dello stare a piangere eran vaghe;
Ma Virgilio mi disse; che pur guate?

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→→ Le bellezze che s'incontrano in questo canto non sono di sorte che ogni lettore possa conoscerle, e però ammirarle, consistendo quasi tutte nella squisitezza dei modi del parlar poetico, nella scelta delle parole, nel dir chiaro e conciso assai, quale al dialogo si conviene, e nella congruenza delle espressioni coi concetti che per esse si rappresentano, cose tutte che, a gustarsi, vogliono gran senno e giudizio. Ho voluto preve nire di ciò il lettore, perchè chi da tal parte è manchevole non prorompa in temerario giudicio. BIAGIOLI.

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2 Avean le luci mie, gli occhi miei, sì inebriate, sì, per la compassione, di lagrimal umore ripieni. 3 dello stare, intendi affissate colaggiù. gliose.

- vaghe, vo

4 che pur guate? che ancor guardi? Guate per guati, an

Perchè la vista tua pur si soffolge
Laggiù tra l'ombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto sì all'altre bolge:
Pensa, se tu annoverar le credi,
Che miglia ventidue la valle volge;
E già la Luna è sotto i nostri piedi:

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titesi in grazia della rima. → Ma qui guatare, secondo il Biagioli, non significa semplicemente guardare, ma bensì affissarsi ad un oggetto con animo passionato dalle circostanze. ←◄

56 si soffolge. Di questo verbo soffolgere non reca il Vocabolario della Crusca che due esempi di Dante: questo, e quell'altro, Paradiso xxIII. 130. [a]:

Oh quanta è l'ubertà che si soffolce

In quell'arche ricchissime, ec.

La struttura di cotal verbo, simile al latino suffulcire, ed il significato del latino suffulcire adattabile ad esso verbo ne'due prodotti esempj, pare che ne persuadano che il soffolgere non sia che il latino stesso suffulcire, italianamente detto. Poggiando in certo qual modo la vista, ossia visione, nell'obbietto veduto, può ed in latino dirsi, suffulcitur visio ab obiecto; ed in italiano, la vista dagli obbietti, o ( ch'è lo stesso) tra gli obbietti si soffolge, si sostiene. Queste parole mostrano quel guardo attonito e fisso in luogo, in modo che, essendo l'anima da forte sentimento assorta, non si distinguono quasi più le forme. BIAGIOLI. smozzicate, trinciate, mutilate.

9 volge, gira, come nel v. 40. del canto precedente volta per girata.

10 E già la Luna ec. Aveudo il Poeta, nel terminare della prossima passata notte, detto che nella notte precedente a quella fu la Luna tonda [b], dicendo ora che la Luna gli era sotto i piedi, viene a dinotare ch'era mezzogiorno passato: siccome

--

[a] * Due esempi dell'Ariosto reca il diligentissimo autore della Teoria e Prospetto de’verbi italiani, signor Ab. Mastrofini, più volte da noi citato, Orlando xiv. st. 50, e xxvII. st. 84. Per verità non sembra che l'insigue Accademia della Crusca dovesse tralasciarli in confermazione degli antichi per dimostrazione dell' uso, o per qualche altra occorrenza E. R. [b] Canto xx. v. 127.

Lo tempo è poco omai che n'è concesso;
Ed altro è da veder, che tu non vedi.
Se tu avessi, rispos' io appresso,

Atteso alla cagion, perch'io guardava,
Forse m'avresti ancor lo star dimesso.
Parte sen gìa, ed io retro gli andava,

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all'opposto, quando due notti dopo il plenilunio abbiamo la Luna sopra il capo, già è passata la mezzanotte.

11 Lo tempo è poco omai, ec., perocchè non restava loro altro tempo, che da quel punto fino all'imbrunire del medesimo giorno, su l'imbrunire del quale, pel centro della terra passando, se n'escono i Poeti d'Inferno. Vedi il e. xxxiv. v. 68.

12 Ed altro è da veder, che tu non vedi, legge la Nidobeatina (-* ed i codd. Cass. e Caet. E. R.); ove l'altre edizioni, E altro è da veder, che tu non credi. -vedi, in luogo di credi, hanno pur trovato in più di trenta mss. gli Accademici della Crusca; e non capisco perchè non l'abbiano ammesso nel testo, e levato credi; il quale ritenendosi, sarebbe questo l'unico caso in cui facesse Dante tre rime con due parole di ugual senso; esempio bensì trovandosi, che facciale con una sola [a], ma con due parole non mai. Ed altro è da veder, che tu non vedi: altro di più maraviglioso e spaventevole, che qui tu non vedi. → Anche il Biagioli, scostandosi dalla Crusca, qui segue la Nidob., che s'accorda anche col codice Stuardiano. E Alfieri, nel suo Estratto delle bellezze di Dante posseduto dal detto Biagioli, notando questo verso, secondo la lezione degli Accademici, scrive: e certo con intenzione di correggere, che tu non vedi. -vedi, legge pure il Vat. 3199.

1314 appresso, in seguito. Se avessi atteso alla cagione ec. dee valere lo stesso che, se avessi atteso ad indagare la cagione. 15 ancor lo star, lo stare ancora, d'avvantaggio. - dimesperdonato, concesso. →→ È tolto evidentemente dal lat. verbo dimitto, che presso gli scrittori di bassa latinità vuol dir anche perdonare. POGGIALI.

So,

16 al 18 Parte sen gia, ec.; sinchisi, di cui la costruzione: Già lo Duca parte sen gìa, ed io gli andava retro, facendo

[a] Par, x. 71. e segg., xiv. 104. e segg.

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