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Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
Luogo a veder, senza montare al dosso
Dell' arco, ove lo scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo, e quindi giù nel fosso
Vidi gente attuffata in uno sterco,
Che dagli uman privati parea mosso:
E mentre ch'io laggiù con l'occhio cerco,
Vidi un col sì di merda lordo,

capo

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109 al 111 non ci basta - Luogo a veder, senza ec.; cí per vi, ivi [a], non è ivi luogo bastevole, atto, a vedere colaggiù. ove lo scoglio più sovrasta, sul mezzo dell'arco, ch'è la parte più elevata; e vuole in sostanza dire che tanto quella bolgia profonda, che, ove il raggio visuale obliquasse tantino dal perpendicolo, andava a terminare nelle pareti, e non nel fondo.

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113 114 privati, cessi. - mosso, per calato colaggiù; come accennando che fosse quello il ricettacolo di tutti i cessi del mondo. » « Qui ( dice il Biagioli ) più d'un lezioso torcerà il grifo, e biasimerà il Poeta d'aver adoperato immagini e pa» role così immonde. Ma doveva egli in grazia di questi leziosi » lasciar di parlare di questa rea gente, ovvero, per rispetto del » loro delicato naso, porli tra' fiori e l'erbe di ridente giardino? » Violare le leggi ch'obbligano alla vera imitazione e a ritrar » le cose quali esse sono, per non dispiacere a costoro si tor» tamente opinanti? Consiglinsi questi cotali con Quintiliano e » con Aristotile, e impareranno da loro ch'uno de' maggior » meriti del Poeta si è d'aver sempre rispetto al luogo, al tem» po, alle al fine.»

persone, e

Per cotal pena data agli adulatori pare a me (ben lungi dalle altrui chiose) che anche Dante sapesse detto lingere clunes per adulare.

116 Si ricordi qui pure il lettore che Aristotile nel 3. della Rettorica c'insegna, ch'essendo le parole imitazione dei concetti, debbono la loro bassezza e la loro altezza imitare. Omnia verba, ripeto con Quintiliano, suis locis optima, etiam sordida dicuntur proprie. BIAGIOLI.←

[a] Cinon. Partic. 48. 4.

Che non parea s'era laico o cherco.
Quei mi sgridò: perchè se' tu sì 'ngordo
Di riguardar più me, che gli altri brutti?
Ed io a lui: perchè, se ben ricordo,
Già t'ho veduto coi capelli asciutti,
E se'Alessio Interminei da Lucca:
Però t'adocchio più, che gli altri tutti.
Ed egli allor, battendosi la zucca:

Quaggiù m'hanno sommerso le lusinghe,
Ond'io non ebbi mai la lingua stucca.
Appresso ciò lo Duca: fa' che pinghe,
Mi disse, un poco 'l viso più avante,

Sì che la faccia ben con gli occhi attinghe

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117 non parea s'era laico o cherco, non appariva, non si vedeva, per la lordura, se avesse cherica o no. Trafigge a un tempo le due classi, ma più la seconda. BIAGIOLI. ←

118 sgridò, la Nidobeatina; gridò, l'altre edizioni. -ingordo per avido. gordo per errore legge il Vat. 3199. Volere ingordo per avido, disse pure il Petrarca, canz. 31.3.; ed ingordo udire, il Varchi nel suo Boezio, 3. 1.

119 brutti, lordi. L'Ang. qui legge tutti, e nel v. 123. brutti. E. R.

121 coi, la Nidob.; co', l'altre ediz. - asciutti per puliti. 122 Alessio Interminei, o Interminelli, nobilissimo cavaliere lucchese, uomo lusinghiero fuor di modo. Volpi. »→ Il Lami lo crede della stessa famiglia Intelminelli, o Antelminelli, della quale fu Castruccio. E. F. - Anterminei, legge il cod. Vat. 3199.

124 battendosi la zucca, cioè il capo; corrispondentemente al detto in generale di tutta quella turba, v. 105.:

E sè medesma con le palme picchia.

126 stucca per sazia. Vocabolario della Crusca. 127 pinghe per pinghi, spinghi, cacci. Antitesi. 129 attinghe invece di attinghi per arrivi. Questa eloeuzione è vaga assai, e vuol dire: sicchè tu aggiunga coll'oechio alla faccia ec. BIAGIOLI. ←

Di quella sozza scapigliata fante,

Che là si graffia con l'unghie merdose,

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Ed or s'accoscia, ed ora è in piede stante: Taida è la puttana, che rispose

Al drudo suo, quando disse: ho io grazie
Grandi appo te? anzi maravigliose:

130 fante, cioè bagascia. MONTI [a]. ←

131 Chellà.

133

Ch'ella si graffia, l'Ang. E. R.; e il Vat. 3199,

132 Edor s'accoscia: atti meretricj. LANDINO e VELLUTELLO. 133 al 135 Taida, la meretrice di Terenzio nell' Eunuco. Non posso qui (dice il Venturi) approvare che quella meretrice venga nominata con quella voce da chiasso. Ma come ci assicura il Venturi che non fosse ai tempi del Poeta, vicini al parlar latino, più intesa e da chiasso la voce latina meretrice, che vorrebb'egli invece adoprata? V'ha egli dubbio, che come ad una parte di una provincia è voce da chiasso quella che ad altra parte della provincia medesima non è, così non intravenga eziandio alle varie etadi? La voce drudo, per cagion d'esempio, a' tempi nostri non si adopera che in cattivo senso; e ai tempi di Dante adoperavasi, e Dante stesso adoprala, anche in buon senso. Puttaneggiare (per accostarci anche meglio al proposito) chi a' di nostri, onestamente scrivendo, adoprerebbelo in luogo di fingere, come adopraronlo i due Villani Giovanni e Matteo, scrittori al Poeta quasi contemporanei ed onestissimi [b]? → Meretrice però legge l'Ang. E. R. che rispose ec. Dee essere la costruzione: che al drudo suo (al suo innamorato Trasone) quando disse (quando costui chiese): ho io grazie grandi appo te? (professi tu a me grandi obbligazioni?) rispose: anzi maravigliose, grandi a maraviglia. Veramente Terenzio fa che così Trasone interrogasse, ed udisse rispondersi, non da Taida medesima, ma dal mezzano Gnatone, da cui aveva fatto a Taida presentare in dono una vaga schiava: ma ben può Dante ragionevolmente supporre instruito così Gnatone dalla scaltrita donna.

[al Prop. vol. 2. P. 1. fac. 65. [b] Vedine gli esempj nel Vocabolario

della Crusca.

E quinci sien le nostre viste sazie.

→ Questa Taide, dice il sig. Poggiali, secondo il costume delle sue pari, sapeva ben profittare, senza punto amarlo, della prodigalità e smargiasseria di Trasone, giovine soldato per lei appassionatissimo. Affinchè poi si riconosca costei per la Taide terenziana, riporta qui Dante una parte di Dialogo relativo ad essa preso dal principio della Scena I. Atto III. dell'Eunuco. -Or ne daremo l'originale e colla spiegazione del Biagioli a maggiore illustrazione del testo. «Trasone, ragionando con Gna« tone del dono mandato a Taide, questi dicendogli che il dono » le era stato assai caro, e avevalo ringraziato sommamente, quegli dice: magnas vero agere Thais mihi? (Tu dici adunque » che Taide mi rende grazie grandi del dono?) Gnatone : ingen»tes (grandissime grazie ti rende.) Trasone: ain tu laeta est? » (tu dici ch'ella è lieta del dono?) Gnatone: non tam ipso quidem dono, quàm abs te datum esse. (non tanto, affè, del » dono per sè, quanto per esserle da te fatto ). Ora questo che » Trasone chiede al mezzano e che questi gli risponde, lo sup» pone il Poeta nostro detto da Trasone a Taide medesima, e » ch'ella fa a lui stesso la risposta, e quale appunto da sì fatte » femmine, che tutte in Taide si figurano, si suol fare.»←

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136 E quinci sien ec., e di qui, di questa sporca bolgia, siano gli occhi nostri sazj, di altro vedere in essa non curino.

ARGOMENTO

Vengono i Poeti alla terza bolgia, dove sono puniti i simoniaci; la pena de' quali è l'esser fitti con la testa in giù in certi fori, nè altro vi appar di fuori che le gambe, le cui piante sono accese di fiamme ardenti. Poi al fondo della bolgia trova Danie papa Niccolò III., e di lui e di altri Pontefici biasima le cattive opere (benchè altri scrivano che Niccolò III., di casa Orsini, fosse un degno Pontefice). Infine, per la stessa via onde era disceso, è portato da Virgilio dalla bolgia sopra l'arco, che risponde al fondo della quarta bolgia.

O Simon mago, o miseri seguaci,

Che le cose di Dio, che di bontate
Denno essere spose, voi rapaci

1 Simon mago. Costui, come leggesi negli Atti apostolici, offerse danari a s. Pietro per comprar da lui la potestà di conferire la grazia dello Spirito Santo, e perciò dall'Apostolo fu maledetto. E quindi il patteggiare e contrattare che si fa delle cose sacre, chiamasi simonia. VOLPI.

23 che di bontate-Denno essere spose, che alla bontà debbon esser congiunte, che ai buoni debbon esser date.→Deono, i codd. Caet. E. R. e il Vat. 3199, e con essi la 3. rom. ediz.◄◄◄ voi rapaci, la Nidob., meglio delle altre ediz., che rompendo it senso leggono, e voi rapaci. Vuole il Biagioli che l'omissione della congiuntiva e tolga gran forza al sentimento. ←

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